Bailamme

Renzo e Lucia
non abitano più qui

 Renzo e Lucia non abitano più qui  QUO-160
15 luglio 2022

Quando Dario Brunori, cantautore calabrese tra i più bravi e intelligenti nel panorama odierno (del suo bel concerto ho già scritto su queste pagine) ha cantato questa strofa, la folla si è accesa e ha applaudito, a sorpresa, durante l’esecuzione stessa della canzone: «Secondo me dato che sono diciott’anni che ci vogliamo bene / E che dormiamo insieme / A che ci serve un prete o un messo comunale / Se c’è una cosa innaturale / è doversi dare un bacio / Davanti a un pubblico ufficiale». Quello scroscio, liberatorio, di grida e applausi, mi colpì e, a distanza di giorni, ancora “lavora” nella mente facendomi domandare quale ne sia stata la causa.

Forse non ce n’è una soltanto, di sicuro però c’è un rifiuto di tutto ciò che è “istituzionale” (civile o religioso non fa differenza) visto come arido, mortificante, rispetto al dato “naturale”. La natura è buona, bella, se lasciata alla sua libera espressione, se invece è incanalata dalle istituzioni create dall’uomo in riti e forme (viste come insensate e inutili), allora è ingabbiata, calpestata.

S’intuisce una visione dell’amore legata al sentimento, al “volersi bene”. E sembra scomparire da questo orizzonte tutto ciò che suona come “responsabilità”, tanto più se è pubblica. La privatizzazione dell’amore coniugale, a questo la folla applaudiva. Nessun obbligo sociale, nessun senso di comunità, l’unione di una coppia è solo un fatto individuale; lo Stato e la Chiesa devono arretrare, sparire possibilmente: tra moglie e marito, insomma, non mettere il rito.

L’uomo in effetti è proprio un “creatore di riti”. Mi viene in mente la volpe, il mirabile personaggio de Il piccolo principe e la sua insistenza sull’importanza dei riti, ma, soprattutto, il romanzo italiano per eccellenza che, sin dal titolo, allude proprio al rito demolito dalla canzone di Brunori: I promessi sposi.. E mi ricordo che anch’io e mia moglie, proprio come Renzo e Lucia, il bacio ce lo siamo dati due volte davanti a un pubblico ufficiale: il primo in comune solo per “promettere di promettere” e così poter affiggere le pubblicazioni all’albo comunale, il secondo sull’altare davanti a un sacerdote che ci ha fatto ripetere quello scambio delle promesse, sottolineando che quella promessa era la nostra forza, qualcosa che nessuno avrebbe mai potuto rubarci.

«Spero, promitto e juro reggono l’infinito futuro» mi insegnava il prof di latino... infinito futuro: parole vertiginose.

Cosa “regge” il rifiuto di scambiarsi promesse, pubblicamente, davanti a testimoni? Ai posteri l’ardua sentenza (niente da fare, Manzoni rispunta sempre). 

di Andrea Monda