Il viaggio del cardinale Parolin nella Repubblica Democratica del Congo e in Sud Sudan
Tra i bambini malati l’ultima tappa della visita

Il cardinale Parolin
in Sud Sudan

 Il cardinale Parolin in Sud Sudan  QUO-154
08 luglio 2022

Hanno il colore dell’ebano ma la fragilità di un cristallo. Moses, Juma, Adia, Mam-Ghereng, Emmanuel e Majok, 2 anni, idrocefala, in braccio alla mamma che la culla facendo attenzione ai movimenti del capo, sono il volto di quella sofferenza dei bambini dinanzi alla quale, come ha detto tante volte il Papa, non c’è risposta ma solo lacrime e preghiera. Loro sono solo 6 dei circa 400 piccoli ospiti del Centro per bambini disabili di Usratuna, nome arabo che tradotto alla lettera significa “Nostra famiglia”. È il servizio che in Africa svolge l’“Ovci - La nostra famiglia”, organismo di volontariato nato in Italia quarant’anni fa per la cooperazione e lo sviluppo.

La casa a Juba, una grande casa, perché tale è l’atmosfera, raccoglie gli sforzi dei rappresentanti delle consacrate laiche delle Piccole apostole e di cooperanti, principalmente italiani. Offrono cure non solo ai malati, principalmente quelli con la spina bifida e idrocefalia, ma anche alle loro famiglie, alle mamme in particolare che necessitano anche di sostegno psicologico. In questo villaggio dove si viene accolti dalla scritta «Whatever you do, do it in love» (“Qualsiasi cosa fai, falla con amore”), il cardinale Pietro Parolin, dopo una visita al seminario St. Peter’s Major e all’Università Cattolica, trascorre venerdì 8 luglio l’ultima tappa del suo viaggio in Africa, iniziato una settimana fa nella Repubblica Democratica del Congo e concluso in Sud Sudan.

Un viaggio accompagnato per tutto il tempo dalla presenza di bambini: quelli danzanti e vestiti a festa nelle messe pubbliche, quelli ammassati nel campo sfollati di Bentiu, tra mosche e pozzanghere, che aspettavano solo che qualcuno gli stringesse la mano, quelli scalzi in fila lungo i cigli della strada, fuori dai tukul e dentro le fosse dove, secondo una nuova ordinanza del sindaco, bisogna bruciare la spazzatura. Ora sono i bambini malati a concludere questa carrellata di volti e sorrisi che il cardinale segretario di Stato porta a Roma, come dono da trasmettere al Papa in vista del suo prossimo viaggio apostolico. E a questa comunità del centro di Usratuna, Parolin, come in tutti gli eventi di questi giorni africani, ribadisce l’affetto del Santo Padre. A suo nome, li incoraggia e gli dà forza; a suo nome, dà la benedizione; a suo nome, li accarezza, facendo attenzione alle loro problematiche fisiche, alle flebo attaccate o, semplicemente, alla paura di vedere un signore di bianco, con una corona di festoni, accovacciarsi per stringergli la manina. «No, no, non piangere», dice il cardinale a una bimba, più grande rispetto alle altre, che si rifugia nel petto della mamma.

Il porporato è stato accolto all’ingresso da un coro di bambini con la maglietta arancione. Uno di loro, senza braccia, consegna un mazzo di fiori. Un altro, cieco, canta un motivetto «Welcome dear cardinal». L’accoglienza è festosa, ma, girando l’angolo, l’impatto è violento. Il segretario di Stato percorre i due corridoi dove le mamme con i loro bambini sono sedute a terra su teli colorati, tutte in fila pronte al saluto. «God bless you, Dio vi benedica», dice il cardinale, accompagnando il gesto con carezze e segni della croce sulla fronte. Poi entra nelle diverse stanze dove sono in corso le terapie, che includono anche due bimbi autistici. Una di loro, vestita di rosa, suona lo xilofono in onore dell’illustre ospite. Parolin si trasferisce poi nel St. Mary’s College, collegio interno al centro che aiuta gli stessi familiari dei malati a specializzarsi nelle cure e nell’assistenza dei disabili. Canti e urla, petali di fiori lanciati da cestini, cori di «Wow! Alleluja!», poi il saluto del porporato che ha incoraggiato a proseguire nella cura di questi piccoli sofferenti: «Loro rappresentano Gesù».

Già nel pomeriggio di ieri il cardinale aveva impattato con l’ingiustificato dolore di chi non ha neppure la coscienza di comprenderlo. Nelson, un anno e 7 mesi, pollice in bocca e Crocs rosa trovate in un pacco fornito dalle suore, senza badare a colore e modello. Per ora vede, ma non si sa ancora per quanto visto che una malattia degenerativa rischia di renderlo cieco permanentemente. Avrebbe bisogno di una operazione urgente, ma le cliniche specializzate sono a Khartum e la mamma sola e il papà soldato non hanno soldi sufficienti per il trasferimento. Hanno speso già tutto per venire da Wau a Juba. Parolin l’ha trovato fuori dalla parrocchia di St. Joseph, zona nord della città, dove preti, suore e religiosi lo attendevano sotto le ventole per l’incontro con il clero. Il cardinale si è fatto attendere per cercare di capire la situazione di questo piccolo con lo sguardo perso nel vuoto che, ad ogni carezza, si rifugiava nel petto della mamma, Bakhita Mansur, 25 anni. Contrariamente alle altre donne che agitavano le braccia o si buttavano in ginocchio, non ha mai alzato lo sguardo per salutare il porporato. È stata Amer, leader di un locale gruppo che si occupa di diritti femminili, a tirarla da un braccio e incitarla a parlare, a chiedere aiuto, a dare numeri e contatti. Ma lei, più di un impercettibile «Thank you» sussurrato con le labbra carnose dischiuse, non è riuscita a dire. Anzi no, «pray...», ha risposto alla domanda su cosa fare per aiutare il figlio.

«Pray», preghiere, ha chiesto Bakhita. E Parolin ha assicurato che queste non mancheranno. Anche a preti e consacrati, come pure oggi ai seminaristi, ha chiesto di non staccarsi dalla preghiera e soprattutto di essere uniti a Cristo, «che è il centro di tutto». Bisogna anche essere «uniti tra voi», in mezzo alle divisioni che feriscono il volto del Sud Sudan. «La Chiesa sia modello ed esempio di unità», ha scandito il segretario di Stato. E sia pure «voce profetica», non solo «social agency», senza far mancare l’aiuto alla gente, soprattutto ai bambini che «sono la speranza per il futuro». Anche se, paradossalmente, in una terra fertile e ricca di risorse come il Sud Sudan non ce ne sono di sufficienti per farli crescere serenamente.

dall’inviato
Salvatore Cernuzio


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