DONNE CHIESA MONDO

Reportage
La religiosa che opera a Gerusalemme Est

La missione di suor Aziza:
parlare con tutti

 La missione di suor Aziza:  parlare con tutti  DCM-007
02 luglio 2022

L’appuntamento è in un’area di sosta sull’autostrada che corre verso nord, a pochi chilometri da uno dei checkpoint sulla barriera che separa Israele dai Territori palestinesi. Dai piccoli minibus, arrivati da Gerusalemme e da Tel Aviv, scendono una ventina di donne. Sono medici, psicologhe, infermiere, interpreti. Sono quasi tutte israeliane, ebree, cristiane e musulmane e dedicano quasi ogni sabato all’assistenza sanitaria dei palestinesi. Una volta al mese la missione è dedicata esclusivamente alle donne dei villaggi. In gran parte musulmane, per questo è più efficace un team interamente al femminile.

Al termine del veloce giro di presentazione, suor Aziza tira fuori dalla borsa una scatola di cioccolatini. È il compleanno della sua amica Bettina Birmanns, neurologa, di origine tedesca, una delle veterane delle cliniche mobili coordinate dai Medici per i Diritti umani israeliani. «È chiaro che non possiamo fare molto, io partecipo da tanti anni per un senso di responsabilità e solidarietà nei confronti di chi vive sotto occupazione» spiega Bettina, prima di risalire sul pulmino. Ci vuole un’ora e mezza di strada, fatta in gran parte di ripidi tornanti, per raggiungere la scuola del villaggio vicino a Ramallah, dove decine di donne sono già in fila ad aspettare le “dottoresse israeliane”. Suor Aziza è Azazet Habtezghi Kidane: eritrea di nascita, comboniana di vocazione e infermiera di professione è l’unica “straniera” e cristiana del gruppo. Parla fluentemente arabo e conosce molto bene la cultura palestinese. Per questo si presta anche come interprete a Ziva Gotlibe, ginecologa ebrea di Tel Aviv, nell’aula trasformata in ambulatorio. Visitano per tre ore, senza mai fermarsi, donne incinte o con problemi di altro genere, spesso taciuti per pudore, paura, ignoranza o mancanza di fiducia. «Ci sono casi di sofferenze che si protraggono per anni, prima che le donne ne parlino e si facciano curare — dice suor Aziza — ma penso che la cosa più importante di queste cliniche mobili sia la possibilità di incontro tra due mondi che, di fatto, non si conoscono. I medici israeliani ascoltano molto, si rendono conto di persona di quale sia la condizione dei palestinesi».

Un ponte tra israeliani e palestinesi che è anche strettamente sanitario. Nella stanza accanto a quella di Aziza, Bettina visita una bimba con una patologia complessa, che necessita di un intervento chirurgico multidisciplinare, non realizzabile nei Territori palestinesi. La diagnosi è corretta, ma occorre il ricovero in un ospedale israeliano. «Noi forniamo tutti i contatti necessari, deve essere, però, l’Autorità palestinese a pagare le spese — spiega Bettina — e avviene solo in casi particolarmente difficili».

A sorvegliare che tutto proceda bene c’è Khadeje, il braccio destro del sindaco del villaggio: sorride soddisfatta perché in due anni di collaborazione, sempre più abitanti del villaggio vengono a farsi visitare dai medici per i diritti umani. «Mettiamo da parte le differenze religiose e la politica. Al centro ci sono solo dei medici che danno cure gratuite alla nostra gente» taglia corto Khadeje, mentre con la coda dell’occhio controlla la distribuzione dei farmaci e l’arrivo del pollo col riso da offrire a pranzo alle sue ospiti. «È uno dei momenti più belli — racconta suor Aziza — condividiamo il lavoro fatto e l’esperienza vissuta. C’è chi è alla sua prima uscita, chi invece viene tutti i sabati. Come me».

Una fedeltà che dura da 12 anni, dall’inizio della missione in Terrasanta di Azezet Kidane, 64 anni, suora comboniana da quando ne aveva 20. Per vestire l’abito religioso è letteralmente scappata da casa. Suo padre voleva farla sposare, ma Azezet viveva da tempo un altro genere di attrattiva. Negli anni di volontariato nell’orfantrofio delle missionarie comboniana di Massawa, aveva intuito che avrebbe voluto dare la vita per servire i più bisognosi. «Ho scoperto più tardi che all’origine del mio desiderio di servire i poveri c’era il desiderio di servire Dio» racconta suor Aziza, guardando ai suoi 40 di missione in Etiopia, Sudan, Londra, Tel Aviv. Ritrova tra i grattacieli delle start up israeliane la sua gente: gli eritrei in fuga dal Paese e dalla guerra nel Sud Sudan, caduti nelle mani delle bande criminali che trafficavano uomini nel Deserto del Sinai. Una tratta che nel 2008 porta sul confine meridionale israeliano migliaia di profughi, che arrivano in condizioni devastate. Tantissime donne sono incinte e chiedono di abortire. I medici per i diritti umani faticano a capire, anche per la difficoltà della lingua, le dimensioni dell’inferno di violenze e soprusi subiti. Suor Aziza diviene la loro voce: raccoglie più di 1.500 testimonianze, aiuta in particolare le donne a ritrovare una ragione per vivere e le autorità a ricostruire la rete dei trafficanti, di cui tanti di nazionalità eritrea, aguzzini in veri e propri campi di tortura. Le denunce di suor Aziza risultano così indigeste al governo del suo Paese, che non le viene rinnovato il passaporto. A più di dieci anni di distanza la coraggiosa religiosa è ancora persona non gradita in patria. Con la costruzione, nel 2013, di una barriera israeliana di separazione sul confine meridionale con l’Egitto termina l’emergenza migratoria, ma non termina il bisogno delle donne accolte da suor Aziza. Sono oggi 450 le giovani madri coinvolte nel progetto Kuchinate, avviato nel 2011 dalla religiosa con una una psicologa israeliana. L’uncinetto — Kuchinate in tigrino — è il principale strumento di lavoro per queste donne, senza status giuridico in Israele, per produrre prodotti artigianali da vendere per guadagnarsi il pane e sentirsi esseri umani, voluti ed amati.

«Quando le Nazioni Unite hanno decretato la fine dell’emergenza nel Sinai, sono finiti anche i contributi per la nostra casa dì accoglienza. Queste donne sono richiedenti asilo, ma senza il diritto ai servizi sociali e sanitari. Sono come in un limbo» sospira suor Aziza, che fa la spola tra Tel Aviv e Gerusalemme, dove abita con la sua comunità. Due italiane, due messicane, due spagnole e una etiopica. «Il carisma comboniano è molto legato alla Terrasanta perché san Comboni è venuto qui, prima della missione in Africa — racconta suor Alicia Vacas, la provinciale — ci sentiamo a casa in una terra che ha tanto bisogno di riconciliazione, ferita tra traumi antichi, fatta da frontiere contese. Lo abbiamo vissuto sulla pelle, essendoci trovate col muro di separazione in giardino. Abbiamo dovuto fare per forza delle scelte». Basta salire sul terrazzo per capire a colpo d’occhio il perché. Il muro circonda la proprietà delle suore, fa da confine all’asilo dei bambini di Betania. Per raggiungere il villaggio di Lazzaro, Marta e Maria, a pochi metri di distanza in linea d’aria, ora bisogna percorrere 25 chilometri. «Abbiamo diviso anche la nostra comunità in due — racconta suor Alicia — e due sorelle sono andate a vivere di là». Suor Aziza ci ha abitato fino a un anno fa, fino a quando ha coordinato le attività con le comunità beduine sparse nel deserto tra Gerusalemme e Gerico. Ventisei villaggi fatti di baracche di lamiera, a continuo rischio di demolizione da parte delle ruspe israeliane. «Sono i più miserabili e bisognosi della Terrasanta. Non hanno veramente nulla — racconta suor Aziza — abbiamo iniziato a lavorare con loro, perché ci siamo accorti che erano i più abbandonati. Mi ha colpito che ci abbiano chiesto, fin da principio, l’educazione per dare un futuro ai loro figli». Sono oggi più di sette gli asili nei villaggi, e più di una giovane è arrivata a laurearsi, altre sono diventate maestre, infermiere, parrucchiere. C’è persino una taxista. «Per non dipendere dai passaggi in auto dei maschi di famiglia, ha investito i pochi risparmi nell’acquisto di una automobile — ricorda Suor Aziza — è stato il primo passo che l’ha portata a dire no alla proposta di matrimonio con un cugino per evitare i frequenti problemi genetici, ha sposato un giovane di Hebron e si è trasferita lì. Il nostro compito è seminare, con pazienza, a Dio quello di far nascere i frutti».

di Alessandra Buzzetti
Corrispondente per il Medio Oriente di Tv2000 e inBlu2000


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