Bailamme

La mia vita, la vita mia

 La mia vita, la vita mia  QUO-143
24 giugno 2022

«A chi appartiene la tua vita? La mia vita appartiene a me». C’è questa scritta su di un manifesto che circola molto in questi giorni per le strade e nelle piazze. Il tema sotteso è, a dir poco, immenso. Vale la pena quindi soffermarsi e tentare di mettere a fuoco qualche idea e provare a esprimerla.

Ciò che unisce la domanda e la risposta è l’aggettivo possessivo: la mia vita. E qui sorge il primo dubbio: può essere la vita oggetto di un possesso? È come quando si parla dei “propri” figli: mio figlio, mia figlia... ma non ci suona forse un po’ eccessivo, fuori tono, alla fine sbagliato? Se non ci suona così ci pensano i “nostri” figli a ricordarci che non sono poi del tutto “nostri”. I figli sono vite umane, sono storie, sono quindi realtà che vivono di libertà, non assoggettabili dunque a niente e nessuno. Non si posseggono né si comprano le vite, le persone. I nostri figli non sono davvero nostri, li generiamo ma non possiamo pretendere di possederli. Questi figli a loro volta hanno una vita, che è stata generata, a prescindere dalla loro volontà e consapevolezza; si può dire che “hanno” una vita? Cosa vuol dire qui il verbo “avere”? Vuol dire per caso “possedere”? L’aggettivo possessivo, il cui uso è inevitabile se si vuole comunicare tra noi esseri umani, può essere davvero applicato ad una “cosa” come la vita? Io posseggo molte cose (una casa, un’automobile, un telefonino, un ombrello...) ma ci sono alcune cose non “ho” ma che “sono” me: il mio corpo, la mia vita, la mia storia.. qui dico “mio” per distinguerle dalle altre cose degli altri, ma non per indicare il possesso di un oggetto. Il corpo, la vita, la storia sono “soggetti”, non “oggetti”.

Ripartiamo dai nostri figli (che non sono nostri) e riflettiamo sul fatto che anche noi siamo figli, siamo tutti figli. Cioè siamo stati generati, qualcuno ci ha donato la vita. Senza il nostro aiuto o consenso: «Sono nato senza chiederlo, senza volerlo morirò» canta De Gregori (l’originale di Not dark yet di Dylan recita esattamente: «Sono nato qui e qui morirò, contro il mio volere»). Qui entra un campo un altro elemento, fondamentale, il dono. Se non è un oggetto da possedere la vita infatti assomiglia più a un dono, qualcosa che riceviamo a prescindere dai nostri meriti, un “di più”. La logica del dono è quella della condivisione: «chi dona non si priva di ciò che dà» canta il poeta Borges e così l’aggettivo possessivo può anche applicarsi ma solo se passa dalla prima persona singolare alla prima persona plurale, dall’io al noi. Chi riceve un dono è spinto dal dono stesso a condividerlo, a “rimetterlo in circolo”, a donare anche lui. A donare innanzitutto al donatore e poi agli altri che conosce e ama. E così accade che chi è stato figlio cercherà, in diversi modi (i modi sono tanti e tanto diversi), di generare altri figli. Un figlio farà altri figli, renderà nonni i suoi genitori, così il dono della vita circola nelle generazioni. Il dono è qualcosa di totalmente libero. Se subentra la dimensione del possesso, se dall’io non si passa al noi, allora la circolazione si interrompe, la catena generazionale si spezza. La vita viene “presa”, catturata e non più donata.

Terzo elemento, anche questo fondamentale: la felicità. Uno dei motori dell’esistenza umana e del mondo. Ebbene sembra che la felicità umana sia collegata strettamente con il secondo elemento, con il dono. Fare e ricevere doni pare che sia per l’uomo fonte sicura di felicità. Se non può donare l’uomo si sente infelice. E donare vuol dire donarsi, cioè “spossessarsi”, smettere di prendere ma lasciare, smettere di appartenere a se stessi, ma appartenere agli altri. Chi vive l’esperienza dell’amore lo sa: i due amanti si appartengono reciprocamente, hanno donato la propria vita l’uno all’altro e in quell’appartenere all’altro non pesa la mancanza di libertà perché in realtà nell’amore non c’è minore libertà. Al contrario è proprio nell’appartenere non al proprio “io” ma all’altro che risiede il massimo della libertà e felicità. Il Vangelo in questo è molto chiaro: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,12). Ma qui stiamo parlando di fede cristiana, quella fede che è basata sul fatto che Deus Caritas est, Dio è amore. Che forse è quello che manca all’affermazione racchiusa nella risposta del manifesto da cui siamo partiti. C’è un ragazzo che risponde così: «la mia vita appartiene a me». Verrebbe la curiosità di chiedere cosa ne pensa la sua fidanzata, quella a cui lui spesso ripete: «tu sei tutta la mia vita, tu sei la vita mia!». 

di Andrea Monda