Hic sunt leones
La nuova rotta del continente per orientare al futuro la sua trasformazione socio-economica

Agenda 2063 una scommessa tutta africana

 Agenda 2063  una scommessa tutta africana   QUO-132
10 giugno 2022

«Bisogna fare attenzione che l’Africa non sopporti il peso del progresso umano... freddamente schiacciata dalla ruota della storia... Non possiamo sottrarci alle necessità del momento storico a cui apparteniamo.» Sono parole del grande intellettuale senegalese Cheikh Anta Diop, tratte dalla sua celebre opera Antériorité des civilisations nègres: Mythe ou vérité historique? (Présence Africaine Editions, Parigi 1993) che mettono in evidenza, oserei dire profeticamente, l’urgenza di una doverosa assunzione di responsabilità, di una coscienza collettiva vigile, tutta africana, rispetto a quanto sta avvenendo oggi sul palcoscenico internazionale. Da questo punto di vista, nonostante gli sconvolgimenti imposti prima dalla pandemia, poi dalla crisi ucraina, occorre riconoscere che le classi dirigenti africane già da tempo avevano tracciato una sorta di road map, un percorso ideale di crescita e maturazione che ha trovato la sua sintesi e collocazione nell’Agenda 2063.

Infatti, nel maggio 2013, in occasione del cinquantesimo anniversario della nascita dell’Oua — l’Organizzazione dell’unità africana, nata il 25 maggio del 1963 e che poi nel 2002 divenne Unione africana (Ua) — i capi di Stato e di governo di questo grande continente firmarono una dichiarazione solenne nella quale enunciarono le basi per una strategia finalizzata alla trasformazione socio-economica del continente africano nei prossimi 50 anni a venire. Si intendeva così riorientare e ridefinire l’ordine del giorno passando dalle istanze dell’Oua — che prevedevano il passaggio dalla lotta contro l’apartheid e il colonialismo al conseguimento dell’indipendenza politica per Paesi africani — a quelle dell’Ua che non potevano prescindere dalle sfide poste dal nuovo millennio. Ecco che allora l’Agenda 2063, adottata ufficialmente il 31 gennaio 2015 in occasione della 24° Assemblea ordinaria dei Capi di Stato e di governo della Ua ad Addis Abeba, rappresenta quel documento programmatico per tracciare una nuova rotta, dunque orientare la trasformazione socio-economica del continente africano, guardando al futuro.

L’Agenda si basa su iniziative presenti e passate, come il Nepad(The New Partnership for Africa’s Development) e i trattati di Lagos (1975) e Abuja (1991), rispettivamente dell’Ecowas (Economic Community of West African States) e dell’Aec (African Economic Community), e sui fondamenti dell’Unione africana che hanno fornito le aspirazioni generali per «un’Africa integrata, prospera e pacifica, guidata dai suoi stessi cittadini e che rappresenta una forza dinamica nell’arena internazionale».

A questo proposito è illuminante leggere quanto riportato sul sito istituzione della Ua, in riferimento alla necessità di prevedere una traiettoria di sviluppo a lungo termine per l’intero continente: «È importante poiché l’Africa deve rivedere e adattare la sua agenda di sviluppo a causa delle trasformazioni strutturali in corso: dall’aumento della pace e dunque la riduzione del numero di conflitti ad una rinnovata crescita economica e progresso sociale; dalla necessità di uno sviluppo incentrato sulle persone, all’uguaglianza di genere e all’emancipazione dei giovani; dai mutevoli contesti globali come l’aumento della globalizzazione, alla rivoluzione delle Tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni (Tic); dall’esigenza di una maggiore unità dell’Africa che la renda una potenza globale da non sottovalutare e capace di raccogliere consensi attorno alla propria agenda comune, alle opportunità emergenti di sviluppo e investimento in settori quali l’agro-business, lo sviluppo delle infrastrutture, la salute e l’istruzione, nonché il valore aggiunto delle materie prime africane». È evidente che il cammino sarà lungo e imporrà repentini aggiustamenti di rotta anche perché le variabili nel mondo globalizzato di cui l’Africa è, nel bene e nel male, parte integrante, sono davvero tante. Basti pensare alla crisi economica, a livello continentale, scatenata dalla speculazione finanziaria che ha acuito per molti Paesi il già pesante fardello del debito. Ciò non toglie che un ruolo fondamentale perché si passi decisamente dalle buone intenzioni al cambiamento è la determinazione ad andare avanti, investendo sulla cultura.

Come ha scritto Paul Tiyambe Zeleza (nato il 25 maggio 1955) noto saggista e romanziere malawiano, nonché esperto di storia economica africana, «l’Agenda 2063 dell’Unione africana fornisce un progetto e un piano generale per trasformare l’Africa (…) e l’istruzione è indispensabile per realizzarla in quanto la promozione di uno sviluppo integrato, inclusivo, innovativo, strutturale e sostenibile richiede la costruzione di un forte capitale umano, sistemi di ricerca e solide identità collettive e valori civici». E qui tornare indietro nel tempo aiuta. Nel 1959 vi erano solo 76 università in tutto il continente, per lo più concentrate in Sud Africa, in Egitto e in alcuni Paesi dell’Africa subsahariana. Il numero è salito a 170 nel 1970, 294 nel 1980, 446 nel 1990, 784 nel 2000, 1.431 nel 2010 e 1.682 nel 2018. Le iscrizioni sono passate da 0,74 milioni nel 1970 a 1,7 milioni nel 1980, 2,8 milioni nel 1990, 6,1 milioni nel 2000, 11,4 milioni nel 2010 e 14,7 milioni nel 2017.

Per quanto rapida sia stata questa crescita, l’Africa è rimasta comunque indietro. Nel 2017, a livello universitario, il tasso di iscrizione medio mondiale era del 37,88 per cento, rispetto all’8,98 per cento nell’Africa subsahariana e al 33,75 per cento nell’Africa settentrionale. La posta in gioco è alta perché la crescita dei saperi, a pensarci bene, rappresenta la conditio sine qua non per il riscatto dell’intero continente. Un fattore, certamente, sul quale occorrerà esprimere maggiore lungimiranza è, ad esempio, quello delle privatizzazioni in quanto non poche istituzioni accademiche pubbliche sono state privatizzate in Africa, con il risultato che quelle private hanno superato numericamente quelle pubbliche. Non c’è dubbio che l’Africa è un continente giovane, con una popolazione di oltre un miliardo e 300 milioni di persone, la cui età media è di 20 anni. Pertanto ha sì ha bisogno di più università, ma esse devono essere finanziariamente sostenibili attraverso una governance inclusiva e soprattutto in grado di valorizzare lo straordinario potenziale umano delle giovani generazioni. Non è un caso, osserva Tiyambe Zeleza se «le borghesie dei Paesi africani tendono ad essere tra le meno patriottiche al mondo in termini di costruzione o sostegno di strutture educative e sanitarie nazionali di alta qualità perché possono accedervi facilmente nei Paesi ricchi».

Detto questo, è peccaminoso “gettare il bambino con l’acqua sporca”. Se da una parte sono evidenti i limiti e le criticità del sistema universitario, dall’altra l’Agenda 2063 non è un’utopia. La nascita dell’African Continental Free Trade Area (Afcfta) fa ben sperare: è un trattato che ha coinvolto 54 Paesi africani su 55, entrato in vigore formalmente il primo gennaio 2021. Esso disegna la nuova geografia economica a livello continentale e rappresenta una pietra miliare all’interno del processo d’integrazione africana attraverso il libero scambio delle merci. L’Afcfta sulla carta rappresenta una grande opportunità per i Paesi africani consentendo loro d’incrementare la formazione professionale, l’industrializzazione, il mercato del lavoro e il commercio all’interno del continente. Le nazioni africane attualmente commerciano più a livello internazionale che tra loro. Secondo il World Economic Forum, il commercio intra-africano rappresenta il 17 per cento delle esportazioni africane, una percentuale di gran lunga inferiore rispetto al 59 per cento dell’Asia e al 68 per cento dell’Europa.

Al momento, il commercio intra-africano rappresenta solo il 2 per cento circa del commercio globale, ma qualora l’Afcfta dovesse effettivamente decollare, come si spera, le prospettive potrebbero essere molto positive. A questo riguardo, la responsabilità dei decisori politici è quella di evitare il cortocircuito tra le università e il mondo del lavoro come invece è spesso avvenuto in questi anni, con il risultato che molti neolaureati africani sono rimasti disoccupati. Alcuni di loro hanno addirittura lasciato il continente in cerca di fortuna altrove. Tra i migranti, cosiddetti «economici» che hanno attraversato il Mediterraneo in condizioni precarie per cercare un approdo in Europa, molti di loro hanno una laurea in tasca che non sono riusciti a valorizzare in patria. E spesso, dispiace prenderne atto, nel Vecchio continente questi giovani sono sotto-qualificati. Per rendere effettiva l’Afcfta, e prim’ancora l’Agenda 2063, la comunità internazionale, in particolare l’Unione europea e i suoi stati membri hanno la grande responsabilità di sostenere il processo del libero scambio delle merci in Africa attraverso investimenti, commercio, assistenza e formazione, dimostrando, concretamente, di voler «aiutare gli africani a casa loro».

di Giulio Albanese