Clemente Riva a 100 anni dalla nascita

Immagine della Chiesa
che tende la mano
al prossimo

 Immagine della Chiesa  che tende la mano al prossimo  QUO-127
04 giugno 2022

Sono tante le persone che su Clemente Riva dichiarano di non poter esprimere una propria testimonianza perché sarebbe condizionata dai troppi ricordi, dai troppi richiami interiori, dalle troppe profonde convinzioni a lui riferibili. E devo dire che anch’io mi ritrovo in quella condizione, di prigionia nei ricordi personali.

Giuocano in questa difficoltà il fatto che ho conosciuto don Clemente all’inizio degli anni ’50; che è stato per anni il mio confessore a San Giovanni a Porta Latina; che per decenni è stato il «prete di famiglia» (nei battesimi, negli anniversari di matrimonio, nei funerali); che con lui ho fatto presenza parallela in tante occasioni pubbliche (in convegni, seminari e comitati); che ho con pudore e tremore accompagnato il lungo declino del suo fisico; che mi resterà per sempre la commozione del nostro composto addio poche ore prima della sua morte («ti voglio bene», «anch’io»). E so che mi farei trascinare dai ricordi di un lungo affetto .

Forse un giorno riuscirò a superare la forte tentazione di tenermi don Clemente nell’interior intimo meo; ma oggi, a 100 anni dalla sua nascita, mi limito a concentrarmi su tre aspetti di lui non viziati da emozioni soggettive: l’intelligenza della sua cultura religiosa; la saldezza della sua appartenenza alla Chiesa e in particolare alla Chiesa di Roma; e il suo umile coraggio di dialogare con tutti, anche ai confini della sua appartenenza sociale ed ecclesiale. E per resistere alla tentazione di sovrapporre i ricordi alla realtà dei fatti, mi faccio aiutare da tre testimonianze, che il lettore ritroverà qui a lato pubblicate.

La prima è di don Clemente stesso, quando ricorda di essere stato “bocciato” per l’ingresso in seminario, e di essere stato ri—bocciato all’entrata nella famiglia rosminiana, che lo declassò ad un destino di maestro elementare, non ritenendolo degno di fare il professore e, indirettamente, il sacerdote a pieno titolo.

È impressionante in questo cedimento autobiografico il tono semplice, quasi affidato alla volontà divina con cui ricorda quella duplice esclusione e poi la riconoscenza a padre Bozzetti che gli evitò di finire maestro elementare a Torino o a Domodossola, e lo chiamò invece a Roma, portandolo non solo alla prevista licenza magistrale ma via via alla laurea in teologia con una tesi dal titolo straordinario (L’origine dell’anima cognitiva in Rosmini) in cui c’è già tutto il suo impegno a coniugare anima e conoscenza, fede e ragione. Non ci fosse stato quel gigante di padre Bozzetti don Clemente si sarebbe accucciato in preghiera a fare il maestro elementare, perché nella sua vita si è sempre affidato alla volontà di Dio, nelle bocciature iniziali come nella nomina a vescovo («avevo detto che non mi sentivo, ma mi arrivò una lettera scritta a mano da Paolo VI che diceva “Lo Spirito Santo ti aiuterà” e non potevo più dire di no»).

Era stato bocciato due volte, ma si sentiva libero da quello stigma negativo, perché lui si riteneva solo e soltanto «un uomo del Signore» capace quindi di una piena libertà di pensiero. E proprio sviluppando questa libertà del pensare diventò un solido riferimento per tutta la realtà ecclesiale italiana (consulente ed assistente dei giuristi e dei laureati cattolici, e dell’Ambasciata di Italia presso la Santa Sede); ed avviandosi a far penetrare ai piani alti la progressiva riabilitazione del suo fondatore Antonio Rosmini. Ed arrivando a coronare tale percorso quando Giovanni Paolo ii scrisse l’enciclica Fides et Ratio, (titolo espressamente rosminiano) in cui risuona il contenuto della sua tesi di laurea, cioè il rapporto fra anima e conoscenza; ma dove trova anche la sua «benedizione di prete»; «fides nisi cogitata nulla est»; ci vuole la ragione, il ragionamento, la cultura per aver fede piena. Una convinzione talvolta controcorrente in una Chiesa che spesso indulge al troppo facile primato della emozione.

Questo primato del rapporto fra fede e ragione, lo faceva un convinto assertore di una Chiesa forte, forte cioè della sua unità interiore di fede e di ragione; di una unità quasi “rocciosa”, senza grandi policentrismi e soggettivismi, sia di esperienza religiosa sia di elaborazione culturale. C’è un ricordo personale, che mi piace rivelare. Nel ’55 si sposò a Firenze, in una chiesa metodista, il mio amico più caro, che mi chiese di far da testimone. Io andai da don Riva in confessione a chiedere l’autorizzazione, e don Riva me la negò in nome del primato della inedificabile unità della Chiesa, ma ancora più nel sospetto che nutriva verso la carica individuale e soggettivistica delle chiese protestanti.

Negli anni non gli ho mai rinfacciato quel rifiuto. Anche dopo che era diventato l’apostolo del dialogo con il mondo protestante e poi con quello ebraico, gli ho sempre riconosciuto la solida difesa dell’unità ecclesiale e ancora più l’amore fedele per la Chiesa e quella di Roma in particolare, un amore che avrebbe sviluppato durante tutta la sua vita. Lo sapevano bene i due Cardinali Vicari con cui ha lavorato, Poletti e Ruini. Il quale nell’omelia del funerale ebbe a ricordare l’attaccamento alla diocesi, anche in aspetti apparentemente marginali («negli ultimi anni ha dato alla Diocesi oltre 600 milioni, tutto quel che aveva ricevuto lavorando per essa») ma specialmente nel dare tutte le sue forze fisiche, fino allo sfinimento («ha continuato il suo lavoro anche se correva il rischio che da un momento all’altro gli si spezzasse la colonna vertebrale»).

Ma proprio questa totale appartenenza alla Chiesa che è in Roma, lo legittimò alla sua dedizione al dialogo ecumenico e interreligioso, culminato nella faticosa preparazione della storica visita del Papa in Sinagoga (basta rileggere l’intervista del Rabino Toaff in occasione della sua morte).

Non sempre fu capito ed assecondato all’interno del mondo cattolico, talvolta contrario ad ibridarsi con gli altri (a un confratello che sghignazzando lo apostrofò dicendogli “ebreo” lui rispose «ne sono onorato»); ma tutte le persone di confine (atei, ebrei, protestanti, islamici) hanno avvertito il valore esemplare della sua esperienza, che aveva radici nella sua ferma convinzione che con “gli altri” non ci si deve fermare a quel che sono e siamo, ma cercare quel che saremo, quel che potremmo essere.

E qui si apre la terza parte del mio ripercorrere il significato della testimonianza religiosa ed umana di don Clemente, che al di là delle denominazioni formali (ecumenismo, dialogo interreligioso, ecc.) seguiva una molla profonda: il primato del rapporto con gli altri come conseguenza del primato dell’Altro. Ricordo il suo affetto per la frase di Levinas «il volto di Dio comincia dal volto dell’altro» e non mi ha mai sorpreso il ricco rapporto di Riva con tutti coloro verso cui si dirigeva: girava a piedi o con i mezzi pubblici (mai visto in taxi, neppure nei giorni più faticosi) perché ricercava con determinazione il contatto con la gente comune; parlava con i suoi parroci da amico e non da vescovo; gli piaceva aggirarsi nelle strade delle parrocchie salutando e chiacchierando con piena semplicità; parlava con gli amici fraterni come con le alte cariche istituzionali con totale sincerità e durezza (con Francesco Cossiga come con me, per esempio). Voleva essere l’immagine della Chiesa che tende la mano al prossimo, senza badare alla sua appartenenza sociale e culturale.

Spesso si è trovato (ha voluto) esplorare le zone di confine della vita collettiva, anche le più inaspettate, se dobbiamo tenere fede alla testimonianza di una pastore valdese che incontrando un gruppo di omosessuali che volevano pregare insieme, scoprì che don Clemente era l’autorevole riferimento del gruppo (ne parlò anche con me, chiedendomi di non parlarne ma segnalandomi che aveva doverosamente messo al corrente della cosa il Cardinale Vicario).

Uno che tendeva così le mani agli altri non poteva non avere una grande propensione a chi viveva ai confini, alla frontiera; e si capisce l’attenzione umana che don Clemente aveva per tutti coloro che frequentava dai negozianti del vicinato e di Via della Croce (che non a caso abbassarono le saracinesche il giorno del funerale); alle cerimonie di altre confessioni (dai valdesi in Piazza Cavour agli ebrei della Sinagoga). In questo era infaticabile, fino alle sue ultime ore. Era pienamente un “prete del Concilio”, non solo perché ne era stato (con padre Tucci) il portavoce, lo “spiegatore alla stampa” come nel tempo hanno ricordato i suoi amici giornalisti, da Vittorio Citterich a Ettore Masina; ma anche e specialmente perché lo viveva quotidianamente come processo continuato: di creare il nuovo, cioè l’azione dello Spirito; di far crescere quotidianamente il popolo di Dio; di tenere in tensione di futuro le comunità ecclesiastiche; di fare “Chiesa sociale” come intuì nella sua relazione del Febbraio ’74.

Forse non dispiacerebbe a Papa Francesco (che ha recentemente detto di non sopportare i preti pre—conciliari che si camuffano con richiami conciliari) la risposta che don Clemente dette nel ’65 ad un giornalista che lo interrogava sulle possibili fughe in avanti e eresie post—conciliari: «Per me l’unica eresia che si potrebbe profilare dopo il Concilio potrebbe essere la pigrizia dei cattolici». Risposta che solo un rosminiano doc come Riva (che di Rosmini aveva curato l’edizione critica de Le cinque piaghe della Santa Chiesa) avrebbe potuto dare.

Testimoniò una fede mai pigra e mai stanca, piena di speranza, ma coniugata con la pazienza umile e silenziosa che era stata obbligata, per lui ed i suoi confratelli, nel secolo buio della messa all’indice del loro fondatore. Una pazienza vissuta con eroica umiltà ma sicura del risultato finale: Et fructum afferunt in patientia diceva spesso don Clemente.

di Giuseppe De Rita

 

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