100 giorni, 50 giorni.
Gli uomini tra la guerra
e la Pentecoste

A woman prays during a Divine Liturgy at St. George Ukrainian Catholic Church in New York City Feb. ...
04 giugno 2022

Cento giorni ieri, cinquanta giorni domani. Cento giorni di guerra in Ucraina, cinquanta giorni tra la Pasqua e la Pentecoste. Forse la storia dell’uomo sta tutta nella tensione tra queste due cifre.

Cento giorni di guerra. È così, e sembra ineluttabile, anche se in Europa era un bel po’ che non accadeva, ma la verità è che non smettiamo di far guerra, è la nota costante della storia, perché «noi siamo testardi come umanità. Siamo innamorati delle guerre, dello spirito di Caino», come ha detto il Papa il 3 aprile tornando dal viaggio a Malta; addirittura ci sono guerre che si chiamano con la loro durata, la guerra dei 30 anni, la guerra dei 100 anni. In fondo 100 giorni sono ancora pochini (e infatti la fine appare ancora lontana).

Cinquanta giorni, Pentecoste. E poi c’è la novità di Gesù e del suo Vangelo. Che spinge a muoversi, a uscire. Uscire dagli schemi delle logiche del mondo, e tra questi gli schemi di guerra sono i privilegiati. In quei 50 giorni tra Pasqua e Pentecoste tutto il processo è chiaro, visibile: i discepoli prima stanno chiusi nel Cenacolo, attanagliati dalla paura, rintanati nella disillusione, covando risentimento e una crescente diffidenza che diventa sfiducia verso il passato e terrore per il futuro. Poi l’incontro con il Signore risorto e il soffio dello Spirito e tutto si scioglie, con coraggio escono fuori e vanno incontro alla gente, alle genti, a tutti, visti non più come stranieri o nemici ma come fratelli e amici. Il mondo come una “carovana di fratelli”, ha detto ieri il Papa citando sant’Ireneo nel discorso a giovani sacerdoti e monaci di Chiese ortodosse orientali, una famiglia in cammino, perché l’unità «non è un progetto da scrivere, un piano studiato a tavolino; non si fa nell’immobilismo, ma nel movimento, nel dinamismo nuovo che lo Spirito, a partire dalla Pentecoste, imprime ai discepoli».

Il punto è che la Pentecoste è la risposta di Dio — in quanto tale sempre creativa — a Babele. La logica, lo “schema”, di Dio e gli schemi degli uomini, così evidenti nell’episodio della Torre «la cui cima tocchi il cielo» che permetterà agli uomini di “farsi un nome”. È il nome di Dio, è la hybris dell’uomo di conquistare il cielo, mettersi al posto del Creatore. Se Babele è l’attacco al cielo dalla terra, Pentecoste è il dono che discende dal cielo sulla terra. Se prima «tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole» (Genesi 11, 1), secondo lo schema del pensiero unico, ora i discepoli parlano le lingue degli uomini e tutti li comprendono. Perché, ha ricordato ieri il Papa, «l’unità non è uniformità e non è nemmeno il frutto di compromessi o di fragili equilibri diplomatici. L’unità è armonia nella diversità dei carismi suscitati dallo Spirito. Perché lo Spirito santo ama suscitare sia la molteplicità sia l’unità, come a Pentecoste, dove le diverse lingue non sono state ridotte a una sola, ma sono state assimilate nella loro pluralità».

Le guerre nascono anche da questo, dalla violenza con cui si impone il pensiero unico, l’unica lingua, l’unica mens, che poi è la logica del mattone di Babele, contabilizzati e calcolati (come i giorni o gli anni di guerra), la logica della produzione e del consumo, dell’efficienza e dello scarto, dove gli uomini sono ridotti a mattoni interscambiabili, e allora per davvero anonimi, privi di un volto e di un nome. Babele e Pentecoste, la stessa direzione, verticale, ma in un caso si va, per aggressione, dal basso verso l’alto, nel secondo caso si va, per condiscendenza, dall’alto verso il basso e solo allora si realizza quella unità che a parole era anche lo scopo dei costruttori della torre: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (Genesi, 11, 4). Ma l’unità, lo ha ripetuto ieri il Papa ai monaci ortodossi, «è un dono, un fuoco che viene dall’Alto. Certo, senza stancarci dobbiamo pregare, lavorare, dialogare, prepararci affinché questa straordinaria grazia possa essere accolta. Tuttavia, il raggiungimento dell’unità non è primariamente un frutto della terra, ma del Cielo; non è anzitutto il risultato del nostro impegno, dei nostri sforzi e dei nostri accordi, ma dell’azione dello Spirito santo, al quale occorre aprire i cuori con fiducia perché ci conduca sulle vie della piena comunione. L’unità è una grazia, un dono».

Quando l’uomo esce dal delirio di onnipotenza di Babele e si lascia guidare dallo Spirito della Pentecoste, allora smette di fare la guerra, si riscopre innamorato di un amore più antico e più grande, la pace, che restituisce il nome e il volto a sé, agli altri, al mondo altrimenti sfigurato. 

di Andrea Monda