Il magistero

 Il magistero  QUO-125
02 giugno 2022

Giovedì 26 maggio

La sinodalità
è parte
di una teologia eucaristica

La sinodalità è parte di un’ecclesiologia pneumatologica, ossia spirituale. Ma lo è anche di una teologia eucaristica. La comunione con il Corpo di Cristo è segno e causa strumentale di un dinamismo relazionale che configura la Chiesa. C’è sinodalità solo quando celebriamo l’Eucaristia e intronizziamo il Vangelo affinché, allora, la nostra partecipazione non sia un mero parlamentarismo, ma un gesto di comunione ecclesiale che cerca di mettersi in movimento. Noi tutti battezzati siamo “synodoi”, amici che accompagnano il Signore camminando.

La parola “sinodalità” non designa un metodo più o meno democratico e ancor meno un metodo “populista” di essere Chiesa. Queste sono deviazioni. La sinodalità non è una moda di organizzarsi o un progetto di reinvenzione umana del popolo di Dio. Sinodalità è la dimensione dinamica, la dimensione storica della comunione ecclesiale fondata dalla comunione trinitaria, che apprezzando simultaneamente il sensus fidei di tutto il santo popolo fedele di Dio, la collegialità apostolica e l’unità con il Successore di Pietro, deve animare la conversione e la riforma della Chiesa a ogni livello.

(Videomessaggio all’assemblea plenaria
della Pontificia Commissione per l’America latina)

Sabato 28

Il cardinale Sodano, uomo ecclesialmente disciplinato
e amabile
pastore

La scomparsa del Cardinale Angelo Sodano suscita nel mio animo sentimenti di gratitudine al Signore per il dono di questo stimato uomo di Chiesa. Nella Curia Romana ha svolto la sua missione con dedizione esemplare. Anch’io ho avuto modo di beneficiare delle sue doti di mente e di cuore, specialmente nel tempo in cui ha esercitato la funzione di Decano del Collegio Cardinalizio. In ogni incarico si è dimostrato uomo ecclesialmente disciplinato, amabile pastore, animato dal desiderio di diffondere ovunque il lievito del Vangelo.

(Telegramma per la morte del cardinale
Angelo Sodano
)

Chiamati
ad “andare
oltre”

Voi utilizzate questo antico saluto dei pellegrini, “ultreya”, per indicare il senso di questi raduni, che fin dagli inizi caratterizzano il vostro carisma: sono momenti di incontro, di annuncio, di testimonianza e di preghiera, per esortarvi a vicenda ad andare “più in là”, ad “andare oltre”.

Non si tratta di riunioni organizzative, non è il “consiglio di amministrazione” di un’azienda, ma incontri fraterni per ritrovare le motivazioni e lo slancio di fede che tutti avete sperimentato fin dal primo cursillo al quale avete partecipato e che ha dato una svolta alla vostra vita.

Vorrei indicare due direzioni fondamentali per il vostro “andare oltre”.

La prima è l’andare verso la comunione. Si tratta di andare oltre sé stessi e oltre il proprio gruppo per fare comunità e crescere nella Chiesa, che è sempre corpo e mai membra slegate, separate. Perciò, mai isolarsi e mai rinchiudersi! Sempre conservare e accrescere i legami vitali con i luoghi di comunione nei quali siamo inseriti.

La seconda direzione fondamentale dell’“andare oltre”, e dunque di ogni ultreya, è la missione. Andare oltre significa andare in missione. Anche il vostro movimento è di fronte alla sfida di formare comunità di discepoli missionari che vadano incontro ai lontani (cfr. Esort. ap. Evangelii gaudium, 24), superando il criterio del “si è fatto sempre così” (cfr. ibid., 33), che non è un criterio cristiano.

(Ai partecipanti all’Ultreya nazionale dei Cursillos di cristianità in Italia)

Il dovere
di promuovere la cultura
della pace
e della
non violenza

La pace è oggi l’ardente anelito dell’umanità. Pertanto, attraverso il dialogo a tutti i livelli, è urgente promuovere una cultura della pace e della nonviolenza e lavorare per questo. Questo dialogo deve invitare tutti a rifiutare la violenza in ogni sua forma, compresa la violenza contro l’ambiente. Purtroppo, c’è chi continua ad abusare della religione usandola per giustificare atti di violenza e di odio.

In un mondo devastato da conflitti e guerre, come leader religiosi, profondamente radicati nelle nostre rispettive dottrine religiose, abbiamo il dovere di suscitare nell’umanità la volontà di rinunciare alla violenza e di costruire una cultura di pace.

Rafforziamo la nostra amicizia per il bene di tutti. La Mongolia ha una lunga tradizione di pacifica convivenza di diverse religioni. Il mio auspicio è che questa antica storia di armonia nella diversità possa continuare oggi, attraverso l’effettiva attuazione della libertà religiosa e la promozione di iniziative congiunte per il bene comune.

(Ai leader buddisti della Mongolia)

La memoria apre alla
riconciliazione dei fratelli

L’adesione alla realtà saldamente documentata resta indispensabile allo storico, senza fughe idealistiche in un passato che si suppone consolatorio.

Lo storico del cristianesimo dovrebbe essere attento a cogliere la ricchezza delle diverse realtà nelle quali, attraverso i secoli, il Vangelo si è incarnato e continua a incarnarsi, regalando capolavori che rivelano l’azione feconda dello Spirito Santo nella storia. La storia della Chiesa è luogo di incontro e di confronto in cui si sviluppa il dialogo tra Dio e l’umanità; e ad essa è predisposto chi sa unire il pensiero alla concretezza.

Se la storia è spesso pervasa da eventi bellici, da conflitti, lo studio della storia mi fa pensare all’ingegneria dei ponti, che rende possibili rapporti fruttuosi tra le persone, tra credenti e non credenti, tra cristiani di differenti confessioni. La vostra esperienza è ricca di insegnamenti. Ne abbiamo bisogno, perché è portatrice della memoria storica necessaria per cogliere la posta in gioco nel fare storia della Chiesa e dell’umanità: quella di offrire un’apertura verso la riconciliazione dei fratelli, la guarigione delle ferite, la reintegrazione dei nemici di ieri nel concerto delle nazioni, come seppero fare, dopo la seconda guerra mondiale, i Padri fondatori dell’Europa unita.

(Alla plenaria del Pontificio Comitato
di scienze storiche)

Domenica 29

Gesù annuncia il dono
dello Spirito
e benedice

La vita terrena di Gesù culmina proprio con l’Ascensione, che professiamo anche nel Credo: «È salito al cielo, siede alla destra del Padre». Che cosa significa questo avvenimento? Come dobbiamo intenderlo?

Per rispondere a questa domanda, soffermiamoci su due azioni che Gesù compie prima di salire al Cielo: Egli anzitutto annuncia il dono dello Spirito e poi benedice i discepoli. Annuncia il dono dello Spirito e benedice.

Gesù non sta abbandonando i discepoli. Ascende al Cielo, ma non ci lascia soli. Anzi, proprio salendo verso il Padre assicura l’effusione dello Spirito Santo, del suo Spirito.

Lo Spirito Santo rende presente Gesù in noi, oltre le barriere del tempo e dello spazio, per farci suoi testimoni nel mondo.

Subito dopo — è la seconda azione — Cristo alza le mani e benedice gli apostoli (cfr. v. 50). È un gesto sacerdotale.

Il Vangelo vuole dirci che Gesù è il grande sacerdote della nostra vita. Gesù sale al Padre per intercedere a nostro favore, per presentargli la nostra umanità.

La
beatificazione di don Lenzini

Ieri, a Modena, è stato beatificato Don Luigi Lenzini, martire della fede, ucciso nel 1945 perché colpevole di additare i valori cristiani come strada maestra della vita, in un clima di odio e di conflitto in quel tempo.

Questo sacerdote, pastore secondo il cuore di Cristo e messaggero della verità e della giustizia, ci aiuti dal Cielo a testimoniare il Vangelo con carità e franchezza.

(Regina Caeli in piazza San Pietro)

Lunedì 30

Per costruire un futuro
di pace

Vi ringrazio, in particolare, per l’impegno profuso ad aiutare le Chiese a rispondere alle sfide legate al massiccio sfollamento provocato dal conflitto in Ucraina. Si tratta del più grande movimento di profughi verificatosi in Europa dopo la seconda guerra mondiale.

Non possiamo dimenticare, tuttavia, i milioni di richiedenti asilo, rifugiati e sfollati in altre parti del mondo, che hanno un disperato bisogno di essere accolti, protetti e amati. Come Chiesa vogliamo servire tutti e lavorare alacremente per l’edificazione di un futuro di pace. Voi avete la possibilità di dare un volto alla carità operosa della Chiesa nei loro confronti!

(Ai partecipanti al Consiglio plenario
della Commissione internazionale cattolica
per le migrazioni)

La guerra
non è
una soluzione

Soccorrere gli ultimi, i poveri, i malati: è questa la via più concreta per promuovere una maggiore fraternità.

Infatti, pensando a tanti conflitti e a pericolosi estremismi, che mettono a repentaglio la sicurezza di tutti, si deve osservare che spesso il più grande fattore di rischio è rappresentato dalla povertà materiale, educativa, spirituale, che diventa terreno fertile per alimentare odio, rabbia, frustrazione e radicalismo.

Cari amici, viviamo in un’epoca in cui la pace è minacciata in molte parti del mondo: prospettive particolariste e nazionaliste, sospinte da interessi egoistici e da avidità di guadagno, sembrano voler sempre più prendere il sopravvento. Ma ciò accresce il rischio che, alla fine, a perdere e venire calpestata sia solo la dignità umana. Per prevenire l’escalation del male, è importante fare memoria del passato, fare memoria delle guerre, fare memoria della Shoah, e di tante altre atrocità.

Dov’è tuo fratello? Lasciamoci provocare da questa domanda, ripetiamocela spesso. Non possiamo sostituire il sogno divino, fatto di un mondo di fratelli, con un mondo di figli unici, violenti e indifferenti. Di fronte alla violenza, di fronte all’indifferenza, le pagine sacre ci riportano al volto del fratello, alla “sfida del tu”. La fedeltà a quello che siamo, alla nostra umanità, si misura qui: si misura sulla fraternità, si misura sul volto dell’altro.

In ognuno di noi, in ogni tradizione religiosa, così come in ogni società umana, c’è sempre il rischio di covare rancori e alimentare contese contro gli altri, e di farlo in nome di principi assoluti e persino sacri. È la tentazione menzognera della violenza, è il male accovacciato alla porta del cuore (cfr. Gen 4, 7). È l’inganno secondo cui con la violenza e con la guerra si risolvono le contese. Invece, la violenza genera sempre altra violenza, le armi producono morte e la guerra non è mai la soluzione ma un problema, una sconfitta.

(Alla delegazione ebraica di B’Nai B’rith International)

Artigiani
della
provvidenza

Don Calabria, come tutti i santi, è stato un profeta. Vi ha lasciato una grande eredità e dovete custodirla. Il cammino che avete fatto e state facendo non è altro che rileggere oggi il percorso che Dio ha indicato a lui: un uomo inserito nella Chiesa del suo tempo, che ha saputo rispondere ai bisogni andando alle periferie, per manifestare il volto paterno e materno di Dio.

Direi che coltivare insieme ai poveri la fiducia nella provvidenza divina vi rende artigiani di una “cultura della provvidenza”. Questo è molto importante! Non va perduta questa dimensione, questa cultura della provvidenza che vedo come antidoto rispetto alla cultura dell’indifferenza, purtroppo diffusa nelle società del cosiddetto benessere. Infatti, la spiritualità cristiana della provvidenza non è fatalismo, non vuol dire aspettare che piovano dal cielo le soluzioni ai problemi e i beni di cui abbiamo bisogno. No. Al contrario, significa cercare di assomigliare, nello Spirito Santo, al nostro Padre celeste nel prenderci cura delle sue creature, specialmente di quelle più fragili, più piccole; significa condividere con gli altri il poco che abbiamo perché a nessuno manchi il necessario. È l’atteggiamento della cura, più che mai necessario per contrastare quello dell’indifferenza.

(Ai capitoli generali dei Poveri Servi
e delle Povere Serve della Divina Provvidenza)

Mercoledì 1° giugno

Custodire
il passato e
accompagnare i passi
del futuro

Le crisi ti spingono in su, ti fanno crescere; il conflitto ti chiude, è un’alternativa, un’alternativa senza soluzione. Educare alla crisi: questo è molto importante. In questo modo essa — la crisi — può diventare un kairòs, un momento opportuno che provoca a intraprendere nuove strade.

Un modello emblematico di come affrontare la crisi ci è offerto dalla figura mitologica di Enea, il quale, in mezzo alle fiamme della città incendiata, carica sulle spalle il vecchio padre Anchise e prende per mano il giovane figlio Ascanio portandoli entrambi in salvo.

Questa figura può essere significativa per la missione degli educatori, che sono chiamati a custodire il passato — il padre sulle spalle — e ad accompagnare i giovani passi del futuro.

In ogni processo educativo bisogna sempre mettere al centro le persone e puntare all’essenziale, tutto il resto è secondario. Ma mai lasciare le radici e la speranza del futuro.

L’educazione, in effetti, è sempre radicata in un passato, ma non per fermarsi: è protesa «a una progettualità di lunga durata», dove l’antico e il nuovo si fondono nella composizione di un nuovo umanesimo.

La cultura dello scarto vuole farci credere che quando una cosa non funziona più bene bisogna buttarla e cambiarla. Così si fa con i generi di consumo, e purtroppo questo è diventato mentalità e si finisce per farlo anche con le persone. Ad esempio, se un matrimonio non funziona più, lo si cambia; se un’amicizia non va più bene, si taglia via; se un vecchio non è più autonomo, lo si scarta... Invece, fragilità è sinonimo di preziosità: gli anziani e i giovani sono come vasi delicati da custodire con cura. Ambedue sono fragili.

(Ai partecipanti al convegno sul tema
«Linee di sviluppo del Patto educativo globale»)

No a una
politica
insensibile
alla dignità
dei vecchi
e dei malati

La bella preghiera dell’anziano che troviamo nel Salmo 71 ci incoraggia a meditare sulla forte tensione che abita la condizione della vecchiaia, quando la memoria delle fatiche superate e delle benedizioni ricevute è messa alla prova della fede e della speranza.

La prova si presenta già di per sé con la debolezza che accompagna il passaggio attraverso la fragilità e la vulnerabilità dell’età avanzata. E il salmista — un anziano che si rivolge al Signore — menziona esplicitamente il fatto che questo processo diventa un’occasione di abbandono, di inganno e prevaricazione e di prepotenza, che a volte si accaniscono sull’anziano. Una forma di viltà nella quale ci stiamo specializzando in questa nostra società. È vero! In questa società dello scarto, questa cultura dello scarto, gli anziani sono messi da parte e soffrono queste cose. Non manca, infatti, chi approfitta dell’età dell’anziano, per imbrogliarlo, per intimidirlo in mille modi. Spesso leggiamo sui giornali o ascoltiamo notizie di anziani che vengono raggirati senza scrupolo per impadronirsi dei loro risparmi; o che sono lasciati privi di protezione o abbandonati senza cure; oppure offesi da forme di disprezzo e intimiditi perché rinuncino ai loro diritti. Anche nelle famiglie — e questo è grave, ma succede anche nelle famiglie — accadono tali crudeltà. Gli anziani scartati, abbandonati nelle case di riposo, senza che i figli vadano a trovarli o se vanno, vanno poche volte all’anno. L’anziano messo proprio all’angolo dell’esistenza. E questo succede: succede oggi, succede nelle famiglie, succede sempre. Dobbiamo riflettere su questo.

La società
si prenda cura
degli anziani

L’intera società deve affrettarsi a prendersi cura dei suoi vecchi — sono il tesoro! —, sempre più numerosi, e spesso anche più abbandonati. Quando sentiamo di anziani che sono espropriati della loro autonomia, della loro sicurezza, persino della loro abitazione, comprendiamo che l’ambivalenza della società di oggi nei confronti dell’età anziana non è un problema di emergenze occasionali, ma un tratto di quella cultura dello scarto che avvelena il mondo in cui viviamo.

Le conseguenze sono fatali. La vecchiaia non solo perde la sua dignità, ma si dubita persino che meriti di continuare. Così, siamo tutti tentati di nascondere la nostra vulnerabilità, di nascondere la nostra malattia, la nostra età, e la nostra vecchiaia, perché temiamo che siano l’anticamera della nostra perdita di dignità. Domandiamoci: è umano indurre questo sentimento? Come mai la civiltà moderna, così progredita ed efficiente, è così a disagio nei confronti della malattia e della vecchiaia, nasconde la malattia, nasconde la vecchiaia? E come mai la politica, che si mostra tanto impegnata nel definire i limiti di una sopravvivenza dignitosa, nello stesso tempo è insensibile alla dignità di una affettuosa convivenza con i vecchi e i malati?

Gli anziani, a motivo della loro debolezza, possono insegnare a chi vive altre età della vita che tutti abbiamo bisogno di abbandonarci al Signore, di invocare il suo aiuto. In questo senso, tutti dobbiamo imparare dalla vecchiaia: sì, c’è un dono nell’essere vecchi inteso come abbandonarsi alle cure degli altri, a partire da Dio stesso.

C’è allora un “magistero della fragilità”, non nascondere le fragilità, no. Sono vere, c’è una realtà e c’è un magistero della fragilità, che la vecchiaia è in grado di rammentare in modo credibile per l’intero arco della vita umana. Non nascondere la vecchiaia, non nascondere le fragilità della vecchiaia. Questo è un insegnamento per tutti noi. Questo magistero apre un orizzonte decisivo per la riforma della nostra stessa civiltà. Una riforma ormai indispensabile a beneficio della convivenza di tutti. L’emarginazione degli anziani sia concettuale sia pratica, corrompe tutte le stagioni della vita, non solo quella dell’anzianità.

(Udienza generale in piazza San Pietro)