Un “viandante” che insegue la fame invece di placarla

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23 giugno 2022

La casa di Mimmo sta tutta in uno zaino. Ma non c’è da piangere, semmai da sorridere.

Visto da lontano,
i capelli raccolti in una coda, l’abbronzatura al punto giusto,
il fisico atletico di chi si tiene in forma, nessuno direbbe che Mimmo, cinquantadue anni che sembrano trenta, vive da tre anni per strada.

Un clochard. Barbone. Vagabondo. Homeless. Senzatetto.

Niente di tutto questo.

Meno che mai un disperato, sconfitto dalla vita e degli eventi.

Mimmo ha compiuto una scelta. Una scelta ponderata. Preparata. Messa in pratica dopo anni di pensamenti e ripensamenti.

Abbandonare la vita per come ci viene insegnata, perché quella vita può diventare il contrario della libertà, può soffocare.

Mettersi in strada. Vivere per strada.

Mimmo lo ha fatto. Ha lasciato il lavoro da elettricista, le convenzioni sociali, si è messo in cammino, al principio per brevi periodi, dalla sua Varese, anche se di famiglia casertana, sino alla Liguria, poi la scelta definitiva: abbandonare tutto.

Ma non per abbandonarsi. Semmai il contrario. Per riscoprirsi. Dentro una povertà solo apparente.

Dentro un cammino.

Ha ridotto all’essenziale la vita e l’ha messa in uno zaino, c’è spazio anche per un barattolo di Nutella, ha iniziato a macinare terra, sino ad arrivare a Roma, città di turisti ma ancora prima di pellegrini, attratti e innamorati tanto da rimanere nell’Urbe. Roma. Città di Santi e popoli, del Cristo delle chiese e dei rioni, dei quartieri borghesi e del Tevere che si sente solo la notte e la mattina sino all’alba, prima che il traffico e la frenesia non lo zittiscano.

Ma com’è vivere per strada? E soprattutto perché? Quali le difficoltà? I pericoli?

Mimmo risponde che la sua paura più grande sono le persone false. Si sarebbe portati a pensare altro, a problemi materiali, il mangiare, il bere, le malattie; invece, lui parla di sincerità e falsità.

Da qui s’inizia a capire la natura del suo sguardo, e la lucidità che sta dietro alla sua scelta. La falsità, in fondo, così come il secondo fine e l’ipocrisia, sono i sentimenti che fanno da humus a tutti i gesti che seguiranno. Sino alla cattiveria.

Una persona falsa vuole da te qualcosa che non ha il coraggio di chiedere e per ottenere quella cosa sarà disposta anche a farti del male.

E lui, per strada, di notte, tra quelli che le convenzioni vogliono scarti e reietti, lui come fa a capire chi sia falso o sincero?

Mimmo ha una tecnica, semplice e universale, animale.

Quando incontra qualcuno sorride per primo e saluta con la mano, come i bambini. Offre gentilezza. Poi con l’esperienza, il saper guardare, si rende conto di chi ha dall’altra parte. Come ogni pratica umana il fallimento è possibile, ma lui sa che quelli che sembrano cattivi, molto spesso, sono solo delusi, offesi, spesso maltrattati dagli altri. Quando gli capita di fronte qualcuno che vorrebbe aprirsi all’affetto, che magari non lo ha mai ricevuto ma lo intuisce, desidera, prova a mettersi al suo servizio, a renderlo felice. I racconti che fa sono pieni di uomini fioriti dentro il sentimento dell’amicizia, anche grazie al suo esempio di gratuità, sempre offerto con il sorriso e gli occhi accesi.

Ma lui, e lo sa bene, rispetto al popolo sempre più numeroso di quelli che vivono per strada è un’eccezione, un’anomalia. Chi vive in strada di solito non lo fa per scelta, ma perché piegato dagli eventi, inginocchiato dal destino. Mimmo lo sa. Racconta che spesso viene trattato con sospetto, diffidenza, proprio da quelli che ai nostri occhi dovrebbero essere i suoi simili. A lui, però, non importa. Scommette sempre su altro: oltrepassare la scorza di scetticismo di tutti quelli che incontra. Poi, ovviamente, chi proprio non vuole essere suo amico è libero di farlo. Anche perché il mondo dove vive, e lui ne è consapevole, è alterato da mille sostanze. In primis l’alcol. C’è chi beve e diventa violento. Chi si fa di eroina e non riesce nemmeno più a reggersi in piedi. L’ottundimento, l’oblio, la lenta autodistruzione, sino alla psicosi, la pazzia. Sono tutte realtà che compongono il mosaico di cui è fatta la sua vita.

È incredibile come quelle che ai nostri occhi dovrebbero essere difficoltà insuperabili per lui siano nemmeno secondarie. Nel portafogli dove tiene appunti, riflessioni, una vecchia patente scaduta, non c’è nemmeno una banconota. Nemmeno un soldo.

In questo momento, dice sorridendo, possiede in tutto trenta centesimi.

E come fa a mangiare? Bere? Roma brucia dentro il primo caldo veramente estivo della stagione.

Mimmo risponde con una certezza che farebbe invidia all’uomo più ricco della terra.

La realtà lo soccorre. La realtà non gli fa mai mancare niente.

Porta mille esempi, racconti. Gesti ricevuti.

Dentro le persone agisce un bene universale. Anche quando non lo sanno. Anche quando non vorrebbero. Come la ragazza che ieri gli ha offerto un gelato, che lo ha salutato con un abbraccio vero.

Questo, Mimmo, non lo mette mai in discussione, ci crede davvero, gli si legge nel sorriso.

A guardarlo, in mezzo a questo giardino nel cuore di Roma, si resta con il dubbio che sia uno dei pochi uomini di fede mai incontrati. Perché la fede è una cosa estrema. Oppure non è. Semplicemente.

Già, e la fede?

Tutte e nessuna.

Ha letto, studiato tante religioni, dalla cristiana alla mussulmana, alla buddista, da tutte ha preso qualcosa, tutte gli sembrano prigioni quando escludono dalla relazione. Per lui, e lo dimostra la sua vita, la vera fede è nel gesto del cammino e dell’incontro. I suoi maestri sono quelli che non hanno paura di essere liberi, di cambiare idea, lui stesso non sa cosa sarà del suo futuro, magari un giorno si fermerà, magari con una compagna e dei figli. Chi può dirlo?

Resta in sospeso l’interrogativo più grande.

Perché la strada? Perché vivere così al di fuori della normalità?
Anche se questa categoria, la normalità, non gli piace proprio per niente,
anzi, lo impaurisce.

In fondo, potrebbe essere testimone dello stesso amore per la vita con una casa e un lavoro. Perché?

Mimmo voleva affamarsi. Sue parole.

E per farlo si è spogliato, pezzo dopo pezzo, e si è messo in strada. È diventato viandante, ecco come si definisce, un viandante che non ha bisogno di nulla, a parte viaggiare.

Inseguire la fame invece di placarla. O meglio. Non annichilirla dentro tutto quello che dovrebbe saziarci e che in verità ci intossica. Che ci viene raccontato, venduto.

Lui ha seguito questo istinto che tentiamo in ogni modo di dimenticare.

Certo, a leggergli alcune pause, silenzi, come quando parla della sua famiglia d’origine e della rottura che si è consumata da quando gli ha comunicato che sarebbe andato a vivere per strada, si potrebbe riavvolgere la sua storia e raccontarla attraverso i non detti, le ricostruzioni psicologiche, le letture che vogliono alla radice del suo gesto il trauma inconsapevole, mai affrontato ed elaborato.

Sarebbe fargli il torto più grande.

Mimmo è un viandante. Oggi. In questo tempo che non vuole riconoscere alla realtà il ruolo di maestra e all’altro, il prossimo, il metro con cui misurare il nostro amore, non teorizzato, ma vivo e pratico.

Tutto il resto è un ornamento, qualcosa che Mimmo non metterebbe mai nella sua casa a forma di zaino.

Dare un nome alla fame che ci abita.

Non è forse questa l’unica cosa che conti veramente?

di Mimmo e di Daniele Mencarelli