Bisogna guardare all’inizio e alla fine della strada che percorrono i migranti: chiedersi perché una persona lascia la propria terra e cosa non funziona quando si arriva alla meta tanto desiderata

Come un albero sradicato

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23 giugno 2022

«Cosa spinge una persona a lasciare la propria terra, a lasciare tutto, rischiando la propria vita nella speranza di trovare un posto sicuro? E cosa c’è che non funziona quando un migrante raggiunge la meta che ha tanto cercato sperando di rifarsi una vita?». Soumaila Diawara, attivista politico e giornalista in Mali finché ha potuto, ovvero fino a quando ha cominciato a temere per la propria vita ed è arrivato in Italia come rifugiato, guarda agli estremi della strada che anche lui ha dovuto percorrere. In mezzo ci sono tante storie, spesso drammatiche.

C’è anche la tua, Soumaila. Ma oggi preferisci metterla da parte perché se si vuole affrontare onestamente la questione delle migrazioni è da queste due domande, da questi estremi, che bisogna partire.

«Le persone non rischiano la vita per divertimento» ripeti più volte. «Lasciare la propria terra è come sradicare un albero con tutte le radici. La nostra società dovrebbe chiedersi perché questo accade. Così come dovrebbe interrogarsi sulla complessità dell’inserimento di una persona in una realtà diversa dalla propria. E rendersi conto che oltre a difficoltà oggettive, come la lingua o la cultura in genere, c’è spesso da fare i conti con l’ostilità, con chi scarica sullo straniero la responsabilità di tutto ciò che non va. L’essere umano per sua natura riesce ad affrontare gli ostacoli che incontra, ma nel momento in cui c’è ostilità, e ci si sente abbandonati e rifiutati, il rischio è quello di aggravare i problemi più che risolverli. Così per alcuni diventa facile finire nelle mani della criminalità organizzata, essere sfruttato e, per le ragazze, restare prigioniere del giro della prostituzione».

Bisogna andare oltre i luoghi comuni, smettere di prendersela con le vittime ed affrontare i problemi veri. Ma quali sono secondo te? «Prima di tutto la questione del cambiamento climatico che spinge milioni di persone ad abbandonare la propria terra: pescatori, contadini, allevatori, pastori… Non ci si rende conto che a pagare le conseguenze di questo fenomeno sono soprattutto paesi che inquinano poco o quasi per niente. Soprattutto quelli africani che si trovano ai piedi del deserto. Poi ci sono le guerre. Dobbiamo chiederci: come si fa a combattere anche in paesi dove non si producono armi? E come fanno ad arrivare le armi quando ci sono leggi che ne vietano la vendita a nazioni in guerra o nelle quali sono violati i diritti umani? Occorre smettere di vendere le armi ai paesi in guerra, smettere di appoggiare le dittature e smettere di permettere che soldi rubati ai paesi poveri finiscano nelle banche occidentali».

Questo è all’inizio della “strada dei migranti”. E all’altra estremità, alla fine del viaggio, che cos’è che non funziona? La tua risposta è netta: il nodo centrale è la questione del lavoro, un lavoro dignitoso ed equamente retribuito. «Io non considero il problema solo dal lato economico — spieghi —. Guardo al lato umano, perché l’inserimento nel mondo del lavoro è fondamentale per aiutare la persona ad integrarsi nella società. Soprattutto tra gli africani, ci sono tante persone che non hanno avuto la possibilità di studiare ma conoscono un mestiere. C’è chi ad esempio sa fare il meccanico, ma in Italia non può lavorare perché non ha l’attestato. Allora bisogna cercare di capire quello che la persona sa fare e accompagnarla in un percorso formativo di perfezionamento. In questo modo si può evitare che molti finiscano nella rete del lavoro nero, spesso sfruttati come braccianti agricoli. Lavorare nei campi è una cosa normale. L’ho fatto anche io. Ma anche questo lavoro deve essere pagato il giusto».

Nella tua analisi sei lucido e diretto. Si avverte la tua formazione politica. Trattieni l’emozione anche quando accenni al viaggio compiuto per giungere in Italia, alle atrocità alle quali hai assistito in Libia, al naufragio nel quale cento dei tuoi centrotrenta compagni sono annegati. Parli bene l’italiano e in ogni parola che scegli si avverte il forte senso civico che ti anima. Senti di avere una responsabilità nei confronti delle tue sorelle e dei tuoi fratelli che hanno percorso e percorrono la strada della migrazione, ma anche nei confronti della società in cui adesso vivi. Credi nella ricchezza della diversità e spieghi che il fenomeno migratorio non è fatto di numeri ma di persone uguali a tutte le altre. «Lo dico spesso: io conosco la vostra lingua, la vostra cultura, ma nessuno di voi conosce la mia lingua e la mia cultura. Eppure abbiamo gli stessi sogni: una famiglia, gli amici, un lavoro, i viaggi…».

Per questo Soumaila Diawara scrive libri, incontra i giovani, commenta l’attualità sui suoi profili social e compone poesie. Uno «strumento di protesta e di denuncia», le definisce, nelle quali libera tutte le sue emozioni. Ce ne regala una alla fine di questa nostra conversazione: «Si intitola “La nostra ombra” e fa così: Persino la nostra ombra ci rende simili. / È il buio dentro di noi a creare le differenze. / Perciò siate luce per l’oscurità altrui. / Non tenebre».

(intervista a cura di
Piero Di Domenicantonio)