Tele che catturano
il respiro del divino

 Tele che catturano il respiro del divino  QUO-120
27 maggio 2022

Pubblichiamo il testo della scrittrice Donna Tartt comparso nel volume La tessitura del mondo (a cura di A. Monda, Lev-Salani, Roma 2022).

Che cos’è che rende alcune storie universali, trascendendo la lingua, la cultura e il tempo? La maggior parte delle formule si sgretola quando le si esamina, anche se, come ha sottolineato Sua Santità Papa Francesco nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, è significativo che la parola latina texere, ovvero tessere, sia la radice non solo di “tessuto”, ma pure di “testo”. Anche le culture Orientali ricorrono alla metafora del tessuto per dare una consistenza e una forma visibile al concetto di storia: i testi fondamentali dell’induismo, del buddismo e del jainismo sono conosciuti come sutra, termine che indica il filo e dal quale deriva la parola inglese “suture” (sutura), e tantra, parola sanscrita che letteralmente significa telaio, trattandosi di un sistema per intessere i diversi fili dei sutra in un insieme organico.

A ben guardare, le metafore sono ovunque: parliamo di imbastire una storia, cucire un racconto, perdere il filo, ricamare sulla verità, fabbricare un alibi, dipanare una falsità, di ragnatela di bugie. Nell’idioma americano le storie talvolta sono dette yarn [che significa filo, ma anche racconto lungo]; nei racconti dei nativi americani, Nonna Ragno era il minuscolo personaggio che ha letteralmente tessuto il mondo; e naturalmente gli antichi greci vedevano la vita individuale, mortale, come un filo filato dai fati, che viene tagliato in modo imprevedibile senza che sappiamo quando. Per tutta la vita ci avvolgiamo nella trama della narrazione per proteggerci, per vestire le nostre spose, per fasciare i nostri bebè, per bendare le nostre ferite, per consolare il nostro pianto, per coprire i nostri morti.

E a partire da Gilgamesh, la narrazione ha aiutato l’umanità a trovare un disegno nel tessuto più ampio che si estende ben oltre l’esistenza individuale. Tracciando «la figura nel tappeto», come la definisce Henry James, seguendo il disegno a portata di mano dentro il motivo più grande di voci e geografie che vanno oltre le nostre, possiamo comprendere il nostro ruolo nella storia e interiorizzare concetti che altrimenti per essere colti potrebbero richiedere una vita di esperienza, studio e osservazione. Le storie che raccontiamo e ri—raccontiamo e che tramandiamo gli uni agli altri sono tende sotto le quali riunirsi, vessilli da seguire in battaglia, funi indistruttibili per collegare i vivi e i morti, e l’intreccio di queste vaste trame attraverso i secoli e le culture ci lega fortemente gli uni agli altri e alla storia, guidandoci attraverso le generazioni.

Ma forse, più propriamente le storie sono tela per vele che issiamo per catturare un respiro del divino. I pensieri di altre persone acquistano una strana vita in noi, ed è per questo che la letteratura è l’arte più spirituale di tutte e certamente quella più trasformativa. Come nessun altro modo di comunicare, una storia può cambiare il nostro modo di pensare, nel bene o nel male, e la storia giusta al momento giusto è una vela maestra che ci può far lanciare con forza in acque incontrollate, trascinandoci velocemente, e a volte permanentemente, da un posto all’altro — talvolta verso coste ricche e dinamiche che non sapevamo esistessero sulla mappa.

Le culture antiche e moderne hanno sempre considerato le storie magiche — e pericolose — per una ragione: perché si può ascoltare una storia e, al suo termine, essere una persona totalmente diversa. Platone, il grande narratore, ci mette in guardia, in maniera pressante e reiterata, contro il male disastroso che le storie sbagliate possono infliggere, specialmente ai giovani, e poi, al contempo, c’è Socrate, che ricorre di continuo al racconto mentre cerca di illustrare un punto metafisico difficile. E, naturalmente, quando Cristo vuole scuotere i suoi discepoli dalla compiacenza o ha difficoltà a far comprendere loro una verità complessa sul perdono, per dire, o l’amore, Egli passa sempre dall’astratto e dal concettuale all’agnello, alla giara d’acqua, al fico, alla casa con molti posti e alle nozze.

Alcune storie sono corrosive. Altre ci intrappolano in false argomentazioni, ci attraggono con ignobili pettegolezzi e seminano discordia e menzogne. (È interessante che net e web, due parole inglesi antiche per indicare reti usate per intrappolare e atterrare la preda, siano anche le due parole che usiamo per Internet). Tuttavia, in prevalenza, anche se non universalmente, le verità che troviamo nelle grandi opere di fantasia sono spirituali, poiché immaginarci profondamente immersi nella vita altrui è di per sé un impegno spirituale. Essere un autore di narrativa, o anche semplicemente un vero lettore di narrativa, significa comprendere che solo attraverso l’immaginazione si può giungere a certe verità intime e complesse. Se, come nelle opere di Faulkner, Camus o Beckett, non raggiungiamo mai la piena sensibilità religiosa, ci confrontiamo comunque seriamente con questioni dell’essere e della moralità, oltre a compiere una ricca e spumeggiante immersione nel mistero di ciò che significa essere un essere umano nel mondo. Come scrisse Thomas Merton, nel 1958, a Boris Pasternak, l’autore de Il dottor Živago: «Non insisto su questa separazione tra spiritualità e arte, poiché ritengo che anche le cose che non sono manifestamente spirituali se giungono dal cuore di una persona spirituale diventano spirituali». O, come ha detto Papa Francesco: «ogni storia umana è, in un certo senso, storia divina». Le storie migliori sono veritiere: perfino le favole, come quelle di Grimm o di Hans Christian Andersen, sono ricettacoli di un certo tipo di verità, mentre anche i racconti popolari riescono a offrirci una comprensione complessa e dettagliata di astrazioni esperienziali che si sono giocate sul campo del tempo, intendimenti difficili da ottenere in qualsiasi altro modo. Da un punto di vista: un racconto antico come Robinson Crusoe era coinvolgente — quasi una vita alternativa — per i lettori dell’inizio degli anni Settanta del xviii secolo, che in prevalenza vivevano e morivano senza allontanarsi più di cinquanta miglia da casa, in un tempo precedente ai film o alla fotografia, e che per la maggior parte non avevano mai visto l’oceano e di certo non avevano mai avvistato una testuggine marina e non erano naufragati su un’isola deserta. Da un punto di vista totalmente diverso: operando su molteplici piani complessi, e senza necessariamente averne l’intenzione, un romanzo come Delitto e castigo ci aiuta a conoscere di prima mano le ripercussioni intricate, contorte e vaste dell’assassinio — perfino dell’assassinio di una persona apparentemente inutile — al di là dell’evidente rischio di una punizione comminata delle leggi civili. La scrittrice brasiliana Clarice Lispector, nel suo ultimo racconto L’ora della stella, chiede: «Chi non si è mai domandato: sono un mostro o è questo che significa essere una persona?». Sotto alcuni aspetti, Delitto e castigo nella sua interezza è una risposta di 450 pagine a tale domanda. Ma essere gettati — a capofitto e con violenza — nel delirio della colpa e redenzione di Raskol’nikov significa vedere anche che sono in gioco altre leggi più profonde, ben oltre la portata temporale delle forze di polizia di San Pietroburgo.

Goethe propone l’idea della storia come tessuto attraverso la sua metafora del filo scarlatto, che spiega citando un’usanza della marina britannica: «tutto quanto il sartiame della flotta regia, dalla fune più robusta alla più tenue, è ordito in modo che vi passi a traverso un filo rosso; questo non può essere tolto senza che tutto si sfaccia, e permette così di riconoscere anche i pezzi minimi come appartenenti alla corona». Il rosso — antico colore di reami e principi — è naturalmente anche il colore del sacrificio di Cristo, un bagliore scarlatto che da questo inverno tormentato del 2020—2021 serpeggia arretrando fino alla Corona di Spine, legando un cuore a un altro e collegando il mortale con il divino. Come la corda rossa della cananea Raab — che simboleggia la sua fede nel Dio di Israele — è un segno di alleanza e protezione. È il filo che, con le parole di G.K. Chesterton, è abbastanza lungo da consentire al peccatore di vagare nei punti estremi del mondo e poterlo comunque riportare indietro con un solo strattone. E in quanto al gomitolo di filo rosso che Arianna dà a Teseo quando entra nel labirinto, si tratta di un filo che promette di mostrare un cammino verso la salvezza.

I pensatori, a partire da Aristotele, hanno cercato di scomporre la narrazione nei suoi elementi indivisibili, sebbene non una delle singole definizioni che ho letto abbracci l’intera gamma delle storie, dai racconti popolari ai fumetti a Čechov ai grandi film di moda del momento. Certamente il mistero, nella sua accezione più ampia di domanda senza risposta, è un filo che ci trascina dentro e continua a farci ritornare ai racconti di ogni genere, fino agli aneddoti che ci scambiamo al negozio di alimentari. Qualcosa è accaduto: vogliamo sapere che cosa. ρMysterion, in greco classico significa letteralmente “una cosa nascosta". L’incipit dell’ Inferno — famoso al punto che non siamo quasi più capaci di sentirlo — si dischiude e fiorisce nuovamente se lo vediamo come una piccola lezione pratica sotto forma di mistero, in soli tre versi: Nel mezzo del cammin di nostra vita / Mi ritrovai per una selva oscura, / Ché la diritta via era smarrita.

Qui tutto è mistero; tutto ci spinge a voler sapere di più. Che cosa c’è intorno a noi nella selva oscura? Come ci siamo arrivati? Come ne usciamo? Siamo davvero così soli come sembra? Come possiamo trovare l’aiuto di cui abbiamo bisogno? Il mistero — l’invitante sentiero che corre via nel buio — è il filo che ci trascina avanti in tutte le storie, da quelle mondane a quelle sublimi, dal police procedural a Shakespeare. E naturalmente il mistero è anche una componente della fede religiosa, che ci spinge avanti e che ci costringe a seguire, sempre con la speranza di qualche sorta di premio o di comprensione più profonda alla fine. Gioioso, doloroso, glorioso: tutte le grandi storie del cristianesimo contengono un qualche forte elemento di mistero, ed è possibile trovare i loro principi non solo al più alto livello soprannaturale, ma anche a quello più umile: storie di doni ricevuti, di generosità, lealtà e coraggio premiati, di emarginati accolti e curati, e di male che finisce dove deve finire. Di sofferenza sopportata da soli ma anche di benedizioni ricevute in modo inatteso, aiuto da parti invisibili. Riunione dopo la separazione. Il grido di misericordia che riceve risposta.

C’è anche la questione della grazia. È vero che le storie di maggior successo si concludono con qualche sottile cambiamento, o sorpresa, anche se si tratta solo di un piccolo mutamento del tempo — e la grazia (o “epifania” come la definisce Joyce) non è di per sé una sorta di sorpresa? Non possiamo predire la grazia; si irradia su di noi in modo imprevedibile e spesso da angolazioni del tutto inaspettate. Accade quando lo chiediamo e a volte quando non lo chiediamo. È l’attimo che si avvicina silenziosamente da dietro, ci prende per il gomito e sussurra: Guarda! E a volte tutto quello che possiamo fare è stare all’erta e aspettare. Sto scrivendo queste parole nel gennaio 2021, all’inizio di un nuovo anno e alla fine di un anno che verrà ricordato, in America e in tutto il mondo, come un vespaio di dolore, falsità e perdita. Ma è bene ricordare che la grazia — nella vita come nella finzione — spesso è un dono che non vediamo giungere. E se le storie possono aprire alla possibilità di vivere in modo più profondo, più connesso ed empatico, possono anche aiutarci a ricordare che viviamo in un mondo in cui la grazia, quanto meno, è possibile.

di Donna Tartt


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