La curiosità politica
come stile di vita

 La curiosità politica come stile di vita   QUO-120
27 maggio 2022

«Morirò come un menestrello, con la chitarra in mano, che suona fino all’ultimo la sua canzone». Diceva così, Ciriaco De Mita. E così è stato. I suoi ultimi tempi erano fatti di ricordi e magari anche di qualche rimpianto. Ma dentro quell’involucro che le circostanze della vita e del tempo gli avevano cucito addosso c’era sempre la sua infinita e appassionata curiosità politica. Una curiosità che non gli dava requie.

Me lo ricordo fin da quando io ero ragazzo, e lui un giovane leader in cerca della sua strada. Interveniva in consiglio nazionale, tra i grandi dell’epoca, parlando a braccio, senza una riga di appunti, con quel tono che a molti sembrava quasi urticante, a qualcuno troppo immaginifico e a tutti maledettamente interessante. Costruiva le premesse della sua affermazione, passo dopo passo, senza concedere nulla alla compiacenza che a volte accompagnava questi tentativi di scalata.

Ci teneva ad essere provocatorio, perché gli era nemica l’indifferenza. E spesso affidava proprio alle frasi più ruvide il compito di dare inizio a un dialogo che potesse andare al fondo delle cose. Non gli interessavano le relazioni di circostanza e tutto sommato preferiva un nemico tutto d’un pezzo piuttosto che un amico a metà. Naturalmente come ogni buon segretario della Dc ne ebbe molti, degli uni e degli altri. Ma a volte cominciare con un litigio si rivelava il modo migliore per intessere un legame.

La sua biografia politica è quella di un democristiano di provincia che conquista il partito, cerca di rinnovarlo, lo attrezza per tener testa a Craxi. Quel Craxi che per metà è alleato e per metà vissuto come una minaccia. Altri racconteranno e ricorderanno quella contesa, e non ho bisogno di calcare anch’io un territorio così frequentato. Io vorrei piuttosto ricordare il tratto umano di De Mita, quello che di lui era nascosto sotto la scorsa ruvida di un personaggio così poco compiacente, eppure così autentico.

La prima volta che presi la parola al consiglio nazionale della Dc ero un giovane alle prime armi, non sapevo parlare e per giunta mi trovai nel bel mezzo di un confronto acceso, all’ora di punta di un giorno che sembrava cruciale. Feci un discorso più che mediocre e mi allontanai in un corridoio dove mi imbattei in De Mita. Mi guardò e con una smorfia mi disse: «Prima di sentirti parlare non ti conoscevo… ma devo dire che anche dopo averti sentito parlare continuo a non conoscerti». Non proprio un mazzo di fiori di benvenuto.

Qualche tempo dopo venni designato per il consiglio di amministrazione della Rai. Lui era segretario del partito e difese la mia designazione a dispetto di tutte le obiezioni che venivano rivolte un po’ al sistema di nomina e un po’ alla nomina del sottoscritto. Rimanemmo in stallo per tre anni, nominati ma non insediati, e nel frattempo morì Bisaglia che era per così dire l’autore del mio nome. In quei tre anni De Mita mi parlò una sola volta dell’argomento per dirmi: «Ho preso un impegno con una persona che non c’è più, e siccome non potrò mai dirgli se ho cambiato idea tu andrai alla Rai senza dovermelo chiedere». Così fu.

Sono frammenti irrilevanti, troppo intimi e personali per dar conto di una biografia. Stiamo parlando di un leader che per sette anni è stato a capo del più importante partito italiano e per un anno a capo del governo. Un cattolico e un democristiano a tutto tondo. Dunque, tutti questi frammenti a fronte della storia — anche la più modesta storia politica — risultano quasi irrilevanti. Danno conto, però, di una personalità. Un uomo timido eppure severo, lucidissimo eppure appassionato, colto eppure attento a ogni sfumatura della sensibilità e della politica popolare.

De Mita cercò di cambiare il suo partito e di restare fedele a se stesso e alla sua cultura. Che l’operazione sia riuscita è materia di discussione, e lo sarà ancora a lungo. Lui però ebbe l’ardire di tentarla. E la coerenza di restarvi fedele per tutta la vita.

di Marco Follini