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Il ruolo dell’Africa nel nuovo contesto geopolitico

 Il ruolo dell’Africa  nel nuovo contesto geopolitico  QUO-115
20 maggio 2022

Forse mai come oggi è necessario fare memoria della recente storia post-coloniale africana, con l’intento poi di operare un sano discernimento su quanto sta avvenendo oggi sul palcoscenico internazionale. Lo spunto ci viene offerto dalla ricorrenza dell’istituzione dell’Organizzazione dell’unità africana (Oua) avvenuta il 25 maggio 1963, meglio nota come Giornata mondiale dell’Africa.

In quella circostanza, trentadue Stati africani che avevano ottenuto l’indipendenza decisero di istituire l’Oua, al fine di promuovere l’unità e la solidarietà tra i Paesi del continente, consolidando la cooperazione e salvaguardando l’integrità territoriale. L’organizzazione venne concepita con l’intento dichiarato di portare a compimento il delicato processo di decolonizzazione. Successivamente, nel corso degli anni ‘90 si sviluppò un dibattito rispetto alla necessità di far fronte alle nuove sfide e ai cambiamenti globali. Tale dibattito portò alla Dichiarazione di Sirte (1999) per la creazione dell’Unione africana (Ua), la quale venne lanciata ufficialmente nel 2002 al summit dei capi di Stato e di governo di Durban.

L’Ua venne istituita con l’obiettivo di accelerare il processo di integrazione dell’Africa, sostenendo gli Stati membri nel contesto dell’economia globale, in modo che i governi potessero far fronte alle grandi sfide socio-politico-economiche del continente. Da rilevare che tra gli obiettivi dell’Ua (art. 3 dell’Atto costitutivo) rientrarono il rispetto della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione universale dei diritti umani; la promozione dei principî democratici, della pace, della sicurezza e della stabilità nel continente; la promozione e protezione dei diritti umani e dei popoli, così come stabiliti nella Carta africana dei diritti umani e dei popoli e negli altri strumenti per i diritti umani rilevanti.

Ma per comprendere la complessità di quanto sta avvenendo oggi in Africa, non solo a causa della pandemia da covid-19, ma anche a seguito del conflitto che sta insanguinando l’Ucraina, le cui ripercussioni sono sempre più planetarie, occorre necessariamente tornare indietro nel tempo. Infatti, il contesto internazionale degli anni Cinquanta e inizio Sessanta, nonostante gli effetti devastanti del secondo conflitto mondiale, con la corsa agli armamenti e le strategie di deterrenza nucleare da parte dei due grandi blocchi contrapposti — Usa-Urss — mise in evidenza la fragilità delle istituzioni preposte al mantenimento della pace a livello planetario. Al contempo, però, si profilavano all’orizzonte segnali di speranza, all’insegna del cambiamento, in riferimento ai processi di decolonizzazione in atto in Africa e nel vasto continente asiatico.

Basti pensare a personaggi come il senegalese Léopold Sédar Senghor o al ghanese Kwame N’Krumah, i quali indicarono la via del riscatto dal giogo imposto dalle potenze coloniali europee, rivelandosi i padri del “panafricanesimo”, movimento culturale e politico che, con valenze diverse, sfumate e per certi versi oggi meno credibili, auspica tuttora l’unione di tutti gli Stati africani.

Senghor e N’Krumah facevano riferimento a scuole di pensiero legate al movimento per il rinascimento africano promosso dalle popolazioni afro d’America all’inizio del secolo scorso, nel corso della loro lotta, in America, per l’emancipazione razziale. Una lotta che si è abituati a collocare soprattutto negli Stati Uniti, ma che ha segnato la storia dell’intero continente, ad esempio con l’esperienza di Haiti, ma anche con aspetti propri e significativi in altri Paesi latinoamericani. E il legame afro-americano col panafricanismo è provato dal fatto che i suoi principali ispiratori furono tutti afroamericani (Edward Blyden, Marcus Garvey, Georges Padmore, Ras Makonnen, Harold Moody, Dusé Mohamed, ecc.).

Non è un caso che i suoi principali ispiratori si rivelassero intellettuali africani anglofoni vissuti negli Stati Uniti o a Londra come N’Krumah o francofoni come Senghor, formatisi nel contatto diretto con il colonialismo francese e che tanto contribuirono all’elaborazione, anche e soprattutto a Parigi, del movimento culturale della négritude. Allo stesso tempo, però, proprio mentre si stava consolidando il sentimento condiviso del riscatto tra le nazioni povere, si gettavano sempre più le premesse per quello scenario che nei decenni successivi sarebbe stato definito dai francesi della mondialization e dagli anglosassoni della globalization.

Tra i vari Paesi industrializzati e dunque benestanti e quelli afflitti dal sottosviluppo economico si instaurarono, gradualmente ma significativamente, quei meccanismi di sudditanza non più politica, come nel passato, bensì economica, generando forme di «neocolonialismo» da cui scaturì, a livello di società civile, una sempre maggiore attenzione alle problematiche dei Paesi in via di sviluppo (Pvs). Lo strapotere di molte aziende occidentali sia in America Latina, come anche in Africa e Asia, generò azioni predatorie finalizzate allo sfruttamento delle commodity.

Nell’ermeneutica di quegli anni vi fu comunque un evento spartiacque che rappresentò, con tutte le sue contraddizioni, un’occasione per affermare l’agognato riscatto. Dal 18 al 24 aprile del 1955, venne, infatti, convocata la storica conferenza di Bandung (Indonesia), su iniziativa di India, Pakistan, Birmania, Ceylon, Repubblica popolare cinese e Indonesia. Vi parteciparono in tutto 29 Paesi allo scopo di promuovere il cartello dei Non-Allineati, una coesione fondata sui caratteri comuni di povertà e arretratezza, con l’intento di realizzare una coalizione neutrale e al contempo emergente, rispetto ai blocchi atlantico e sovietico. Nella dichiarazione finale si proclamò l’eguaglianza tra tutte le nazioni; il sostegno ai movimenti impegnati nella lotta al colonialismo; il rifiuto delle alleanze militari egemonizzate dalle superpotenze e alcuni principî fondamentali di cooperazione politica internazionale fra i Paesi aderenti.

A Bandung venne usata per la prima volta in ambito politico l’espressione «Terzo Mondo», coniata pochi anni prima dal demografo francese Alfred Sauvy che paragonava quei paesi al «Terzo Stato» della Francia pre-rivoluzionaria. Nacque così la distinzione fra le economie in via di sviluppo e quelle avanzate del libero mercato.

Il fronte dei Paesi Non-Allineati, nonostante alcune forti contrapposizioni interne, crebbe negli anni e molti Paesi africani vi entrarono per farne parte: dall’Algeria all’Egitto, dall’Etiopia al Ghana. dalla Tanzania allo Zambia. Sta di fatto che dopo un lungo periodo di quasi-oblio, il Movimento è tornato recentemente alla ribalta nel 60° Anniversario della sua fondazione, celebrato a Belgrado l’11 e 12 ottobre dello scorso anno, con una Conferenza in grande stile cui hanno preso parte delegazioni di ben 105 Stati e 9 organizzazioni internazionali.

Quella dei Non-Allineati potrebbe rappresentare, in considerazione del nuovo scenario geopolitico che si sta configurando, una nuova piattaforma multilaterale all’interno della quale molti Paesi extra- G20 , tra i quali quelli africani, potrebbero affermare le loro istanze altrimenti derubricate a minori questioni regionali dai cosiddetti big players internazionali.

È vero che 28 Paesi africani hanno votato all’Onu una risoluzione di condanna dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Tuttavia, ben 17 si sono astenuti e 8 non hanno partecipato alla votazione. Sebbene non allineamento e neutralità non siano necessariamente la stessa cosa, è sempre più evidente la necessità di creare un rassemblement capace di essere interlocutore nelle sedi internazionali, affermando il diritto ad una pacifica coesistenza. Da questo punto di vista, la Ua, che peraltro ha denunciato l’aggressione, potrebbe rivestire un ruolo strategico, contrastando gli approcci bilaterali che hanno così negativamente influenzato lo sviluppo e la crescita dell’Africa. Questa è una condizione necessaria, ma non certo sufficiente.

La crisi economica a livello continentale, scatenata prima dalla pandemia, poi dalla crisi ucraina con l’impennata dei prezzi delle commodity (cereali in primis), impongono un nuovo processo di cooperazione tra i grandi protagonisti dell’economia e della politica mondiale nei confronti dell’Africa. Una politica che apra all’incontro e non allo scontro, all’insegna della fraternità come auspicato da Papa Francesco.

di Giulio Albanese