Hic sunt leones
Aumenta la spesa militare in Africa con gravi ricadute per lo sviluppo del continente

«Si vis pacem para pacem»

 «Si vis pacem para pacem»  QUO-109
13 maggio 2022

Nel 2021, la spesa mondiale per gli armamenti ha raggiunto la cifra record di 2.113 miliardi di dollari, il 2,2 per cento del Pil planetario. Dunque, gli effetti economici della pandemia da covid-19 non hanno interrotto la tendenza all’aumento dei budget per il comparto della difesa registrato da alcuni anni a questa parte. Lo ha certificato in questi giorni con grande amarezza l’Istituto per gli studi sulla pace di Stoccolma (Sipri), sottolineando nello specifico che la spesa militare in Africa è aumentata dell’1,2 per cento nel 2021, raggiungendo così una cifra stimata di 39,7 miliardi di dollari.

A livello continentale questo totale è stato diviso quasi equamente tra Nord Africa (49 per cento del totale regionale) e Africa subsahariana (51 per cento). Un dato apparentemente in controtendenza riguarda la percentuale degli stanziamenti assegnata dai governi alle forze armate dei vari Paesi africani. I dati del Sipri parlano di una media del 6,1 per cento dei loro bilanci pubblici, registrando così una diminuzione di 0,3 punti percentuali rispetto al 2020. Lo stesso trend viene rilevato nella media percentuale mondiale, ma non sorprende. Infatti, come si legge nel rapporto Sipri, «solo grazie all’aumento temporaneo della ricchezza nel 2021, il peso dei bilanci armati è passato l’anno scorso (2021) dal 2,3 per cento al 2,2 per cento del Pil».

Volendo esaminare il trend delle spese militari africane nel decennio 2012-2021, emergono tre distinte fasi. Dal 2012 al 2014 vi è stata una crescita significativa; poi, per quattro anni, vi è stata una graduale diminuzione. Successivamente, fino al 2021, si è registrato un incremento complessivo del 2,5 per cento. Da rilevare che nella macroregione subsahariana sono in corso undici guerre che raramente vengono mediatizzate dalla stampa internazionale, a differenza del conflitto che dal 24 febbraio scorso sta insanguinando l’Ucraina. Basti pensare che nella sola regione del Tigray, nell’Etiopia settentrionale, in un anno e mezzo di guerra, ha perso la vita oltre mezzo milione di persone. Nel continente africano, quasi tutti i conflitti armati sono stati internazionalizzati, anche a causa di attori statali e di attività transnazionali di gruppi islamisti violenti, altri gruppi armati e reti criminali.

Le dinamiche che caratterizzano i conflitti africani, spesso legate a tensioni etniche e religiose, dipendono nella stragrande maggioranza dei casi dalla combinazione di molti fattori quali: la debolezza delle autorità statuali, la corruzione, la fornitura inefficace dei servizi di base, la competizione per il controllo delle risorse naturali (fonti energetiche in primis), disuguaglianze ed emarginazione. Questa fenomenologia è però stata anche plasmata da turbolenze politico-istituzionali e dall’impatto della pandemia di covid-19, nonché dall’insicurezza idrica e dal crescente impatto dei cambiamenti climatici.

I conflitti, dunque, rappresentano una variabile fondamentale per interpretare la geopolitica del continente. Motivo per cui stabilità e prosperità non possono prescindere dalla capacità dei governi e delle istituzioni multilaterali di agire per contrastare e limitare l’incidenza dei conflitti sugli equilibri politici, sociali, economici del continente.

In termini generali è comunque evidente che se nell’epoca postcoloniale l’incidenza dei conflitti tra Stati è stata limitata, le guerre civili continuano ancora oggi a tracciare il solco dell’instabilità di molti Paesi africani. Poiché le guerre si combattono con le armi, è bene ricordare che la maggior parte di quelle in circolazione in Africa sono importate, anche se a queste si sono poi affiancate quelle prodotte legalmente dalle varie industrie autorizzate, presenti in ben undici Paesi africani (Etiopia, Kenya, Tanzania, Uganda, Zimbabwe, Algeria, Egitto, Sudan, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Sud Africa). Il Groupe de recherche et d’information sur la paix et la sécurité (Grip) con sede a Bruxelles, in Belgio, ritiene che siano circa 40 milioni le armi in mano ai civili in tutta l’Africa e che il tasso di diffusione maggiore sia localizzato nella macroregione subsahariana, dove si stima un totale di 9,4 armi da fuoco ogni 100 abitanti.

Naturalmente, i dati sulle spese militari pubblicati annualmente dal Sipri si basano esclusivamente su fonti aperte. Pertanto, è difficile riuscire a conoscere l’entità del business illecito di armi che coinvolge molte delle formazioni armate ribelli che operano nelle aree di crisi a livello continentale; per citarne alcune: dal Sahel al settore orientale della Repubblica Democratica del Congo; dalla Repubblica Centrafricana alla Somalia; dalla regione mozambicana di Cabo Delgado al nord della Nigeria. D’altronde, i confini porosi e le lunghe coste che si affacciano sugli oceani consentono ai trafficanti di contrabbandare armi leggere con grande disinvoltura. Come se non bastasse, vi è anche grande preoccupazione su come vengono gestite le scorte nazionali di armi in alcuni Paesi: il timore, infatti, è che possano finire nelle mani sbagliate.

Le minacce, com’è noto, vengono dal terrorismo e dalla criminalità organizzata presente nel continente. Ma si registrano anche conflitti locali tra pastori e contadini, nelle zone rurali, per l’accesso all’acqua e ai pascoli. In particolare, il furto del bestiame, risorsa preziosa per molte comunità rurali, rientra in questo genere di conflittualità. Come evidenzia il rapporto The Growing Complexity of Farmer-Herder Conflict in West and Central Africa, curato da Leif Brottem e pubblicato l’estate scorsa dall’Africa Center for strategic studies, l’aumento della frequenza e dell’entità dei furti di bestiame è sia una causa che un effetto di conflitti violenti. I gruppi armati utilizzano il bestiame rubato per finanziare le loro attività. Il rischio di furto fa sì che, al contempo, i pastori si armino per proteggere il loro bestiame.

Alla luce di queste considerazioni, è stata certamente lodevole l’iniziativa Silencing the guns, lanciata dall’Unione africana (Ua) nel 2013, che guardava al 2020 come orizzonte temporale per realizzare il progetto di un’Africa finalmente libera da conflitti violenti. Sebbene questa campagna, nonostante la buona volontà degli ideatori, non sia riuscita a conseguire tale traguardo, la Ua ha impresso un nuovo slancio all’iniziativa, con l’auspicio di silenziare le armi entro il 2030, con l’intento dichiarato di sensibilizzare le istituzioni e l’opinione pubblica sulle cause che determinano i conflitti. Un obiettivo certamente ambizioso, ma senza dubbio necessario a sostenere le prospettive di sviluppo del continente sul lungo periodo.

Una cosa è certa: l’antica locuzione romana: «Si vis pacem para bellum», è purtroppo ancora oggi professata con grande spregiudicatezza. Motivo per cui l’industria bellica è l’unica, in tempo di crisi, a non conoscere alcuna forma di recessione. Occorre, pertanto, alla luce anche delle coraggiose ammonizioni del magistero di Papa Francesco, affrontare il tema della corsa agli armamenti, giocando la carta della consapevolezza.

A questo proposito sono presenti in Africa diverse componenti della società civile, molte delle quali d’ispirazione cristiana, che propongono alle comunità itinerari specifici di formazione teologica, morale, spirituale alla pace, finalizzati ad adeguate scelte di denuncia, di rinuncia e annuncio per una nuova civiltà dell’amore. Agli scettici, sembrerà pure un’utopia, ma questo è un terreno dove s’impone la profezia evangelica. Quella indicata dall’indimenticabile don Tonino Bello: «Si vis pacem, para pacem!».

di Giulio Albanese