Il magistero

 Il magistero  QUO-108
12 maggio 2022

Venerdì 6

No allo
scandalo
della divisione
di fronte
alla barbarie
della guerra

Oggi si conclude la Plenaria, che è stato finalmente possibile tenere dopo averla rimandata più volte a causa della pandemia. Questa, con il suo tragico impatto sulla vita sociale del mondo intero, ha fortemente condizionato anche le attività ecumeniche, impedendo i consueti contatti e nuovi progetti.

Al tempo stesso, però, la crisi sanitaria è stata anche un’opportunità per rafforzare le relazioni tra i cristiani.

Un risultato ecumenico della pandemia è stata la rinnovata consapevolezza di appartenere tutti all’unica famiglia cristiana, consapevolezza radicata nell’esperienza di condividere la medesima fragilità e di poter confidare solamente nell’aiuto che viene da Dio.

Paradossalmente, la pandemia, che ci ha costretti a mantenere le distanze gli uni dagli altri, ci ha fatto comprendere quanto in realtà siamo vicini e quanto siamo responsabili gli uni degli altri.

È fondamentale continuare a coltivare questa consapevolezza, e far scaturire da essa iniziative che rendano esplicito e accrescano questo sentimento di fratellanza.

Oggi per un cristiano non è possibile, non è praticabile andare da solo con la propria confessione.

O andiamo insieme, tutte le confessioni fraterne, o non si cammina.

Oggi la coscienza dell’ecumenismo è tale che non si può pensare di andare nel cammino della fede senza la compagnia dei fratelli e delle sorelle di altre Chiese o comunità ecclesiali.

Questa è una grande cosa. Soli, mai. Non possiamo.

È facile, infatti, dimenticare questa profonda verità. Quando ciò accade alle Comunità cristiane, ci si espone seriamente al rischio della presunzione di autosufficienza e della autoreferenzialità, che sono gravi ostacoli per l’ecumenismo.

Noi lo vediamo. In alcuni Paesi ci sono certe riprese egocentriche — per così dire — di alcune comunità cristiane che sono un tornare indietro e non potere avanzare.

Oggi, o si cammina tutti insieme o non si può camminare. È una verità e una grazia di Dio questa coscienza.

Prima ancora che l’emergenza sanitaria finisse, il mondo intero si è trovato ad affrontare una nuova tragica sfida, la guerra attualmente in corso in Ucraina.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale non sono mai mancate guerre regionali!

Pensiamo al Rwanda, per esempio, 30 anni fa... pensiamo al Myanmar... Ma poiché sono lontane, non le vediamo, mentre questa è vicina e ci fa reagire.

Tuttavia, questa guerra, crudele e insensata come ogni guerra, ha una dimensione maggiore e minaccia il mondo intero, e non può non interpellare la coscienza di ogni cristiano e di ciascuna Chiesa.

Dobbiamo chiederci: cosa hanno fatto e cosa possono fare le Chiese ? È una domanda a cui dobbiamo pensare insieme.

Nel secolo scorso, la consapevolezza che lo scandalo della divisione dei cristiani avesse un peso storico nel generare il male che ha avvelenato il mondo di lutti e ingiustizie aveva mosso le comunità credenti, sotto la guida dello Spirito Santo, a desiderare l’unità per cui il Signore ha pregato e ha dato la vita.

Oggi, di fronte alla barbarie della guerra, questo anelito va nuovamente alimentato.

Ignorare le divisioni tra i cristiani, per abitudine o per rassegnazione, significa tollerare quell’inquinamento dei cuori che rende fertile il terreno per i conflitti.

L’annuncio del vangelo della pace, che disarma i cuori prima ancora che gli eserciti, sarà più credibile solo se annunciato da cristiani finalmente riconciliati in Gesù, Principe della pace; cristiani animati dal suo messaggio di amore e fraternità universale, che travalica i confini della propria comunità e nazione.

Torniamo su quello che ho detto: oggi, o camminiamo insieme o rimarremo fermi. Non si può camminare da soli. Non perché è moderno: ma perché lo Spirito Santo ha suscitato questo senso dell’ecumenismo e della fratellanza.

Da questo punto di vista, la vostra riflessione su come celebrare in modo ecumenico il 1700° anniversario del primo Concilio di Nicea, che ricorrerà nel 2025, rappresenta un contributo prezioso.

Nonostante le travagliate vicende della sua preparazione e soprattutto del lungo periodo di recezione, il primo Concilio ecumenico è stato un evento di riconciliazione per la Chiesa, che in modo sinodale riaffermò la sua unità intorno alla professione della fede.

Lo stile e le decisioni del Concilio di Nicea devono illuminare l’attuale cammino ecumenico e far maturare nuovi passi verso la meta del ristabilimento dell’unità.

Dato che il 1700° anniversario di Nicea coincide con l’anno giubilare, auspico che la celebrazione del prossimo giubileo abbia una rilevante dimensione ecumenica.

Poiché fu un atto sinodale e manifestò anche a livello della Chiesa universale la sinodalità quale forma di vita e di organizzazione della comunità cristiana, voglio sottolineare l’invito che, insieme alla Segreteria Generale del Sinodo, il vostro Consiglio ha indirizzato alle Conferenze episcopali, chiedendo di cercare i modi per ascoltare, durante l’attuale processo sinodale della Chiesa cattolica, anche le voci dei fratelli e delle sorelle di altre Confessioni.

Se vogliamo davvero ascoltare la voce dello Spirito, non possiamo non sentire ciò che ha detto e sta dicendo a tutti coloro che sono rinati «da acqua e da Spirito».

Andare avanti, camminare insieme. È vero che il lavoro teologico è molto importante e dobbiamo riflettere, ma non possiamo aspettare di fare il cammino di unità finché i teologi si mettono d’accordo.

Una volta un grande teologo ortodosso mi disse che lui sapeva quando i teologi saranno d’accordo. Quando? Il giorno dopo il giudizio finale, mi ha detto. Ma nel frattempo? Camminare come fratelli, nella preghiera insieme, nelle opere di carità, nella ricerca della verità. E questa fratellanza è per tutti noi.

(Alla Plenaria del Pontificio consiglio
per la promozione dell’unità dei cristiani)

Sabato 7

Nuovi schiavi

Il tema dell’assemblea, in piena consonanza con l’origine mariana della sua vocazione, è il versetto del Vangelo di san Giovanni: «Fate quello che vi dirà».

Noi religiosi non possiamo mai dimenticare che non c’è sequela senza servizio e senza croce.

La prima richiesta che la Vergine vi fa oggi, come membri del capitolo generale, è di mettervi all’ascolto.

La situazione attuale si potrebbe paragonare a quella che si presenta nel vangelo delle nozze di Cana: «Non hanno più vino».

Molte realtà che possiamo vedere oggi nel mondo, nella Chiesa, nell’Ordine, ci parlano di questa carenza, della mancanza di speranza, di motivazione, di soluzioni.

Credo che oggi Maria vi chieda che sia Gesù a interpellare il vostro cuore in modo nuovo, originale, inatteso.

È possibile che voi abbiate già percorso il cammino, in tutto l’iter che vi ha portati fin qui con domande, progetti, convinzioni.

Gesù non risponde a questi interrogativi, propone una cosa che a nessun servo sarebbe venuta in mente, riempire le giare di acqua.

Gesù non dice loro quello che si aspettano, ma qualcosa che non avrebbero mai immaginato di sentire.

Al capitolo non si va per mettersi in luce, si va per ascoltare con semplicità, con gratitudine, con abbandono.

Le giare ci invitano a tornare al primo amore, alla fonte, a recuperare l’atteggiamento innocente e pieno di speranza dei nostri primi anni di vita consacrata.

Ci chiedono anche di mantenere lo sguardo limpido di chi vede il bisogno e non il frutto che spera di ottenere attraverso lo sforzo compiuto.

Le giare devono tornare a riempirsi con la stessa aspettativa con cui si sono riempite prima che il banchetto iniziasse.

La realtà ci può sembrare una lunga notte, il nostro lavoro non può sembrare uno stancarsi senza senso, se non si percepisce come risposta generosa alla chiamata di Gesù, unendoci alla Chiesa nell’opera di evangelizzare, perché la vocazione della Chiesa è evangelizzare.

Apriamo il cuore per accogliere la sorpresa che Gesù ci porta.

Non so quale sarà e neppure voi lo sapete. Ascoltate Maria, non temete di lasciarvi sorprendere da questa voce che vi invita a riempire di nuovo le giare, a consumarvi nel servizio concreto, semplice, nel servizio inutile nei piani del maestro di tavola, ma fondamentale per riconoscere un’opera che non è nostra, bensì di Dio.

E in tutto ciò saper “stare” con Maria accanto a Cristo ai piedi della croce, nella carne sofferente del povero e del prigioniero.

Anche oggi esistono i prigionieri, come sempre, cambiano geografia, modalità, colore, ma la schiavitù è una realtà che si sta conformando sempre più.

Ci sono più schiavi ora che ai tempi in cui siete stati fondati. E questa deve essere una sfida alla vostra risposta.

Le nuove schiavitù, quelle che si dissimulano, che non si sanno, quelle nascoste, poiché sono tante.

Anche nelle megalopoli come Roma, Londra, Parigi, ovunque, ci sono schiavitù che vanno avanti. Cercatele e chiedete al Signore: che faccio?

(Al capitolo generale dell’ordine dei mercedari)

Domenica 8

Beata Aguchita

Ieri a San Ramón (Perú) è stata beatificata María Agostina Rivas López, detta Aguchita, religiosa della Congregazione di Nostra Signora della Carità del Buon Pastore, uccisa in odio alla fede nel 1990. Questa eroica missionaria, pur sapendo di rischiare la vita, è sempre rimasta vicina ai poveri, specialmente alle donne indigene e contadine, testimoniando il Vangelo della giustizia e della pace. Il suo esempio possa suscitare in tutti il desiderio di servire Cristo con fedeltà e coraggio.

Preghiera per le vocazioni

Si celebra oggi la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, che ha per tema «Chiamati a edificare la famiglia umana». In ogni Continente, le comunità cristiane invocano dal Signore il dono delle vocazioni al sacerdozio, alla vita consacrata, alla scelta missionaria e al matrimonio.

Questa è la giornata in cui sentirci tutti, in quanto battezzati, chiamati a seguire Gesù, a dirgli di sì, a imitarlo per scoprire la gioia di dare la vita, di servire con gioia e slancio il Vangelo. In questo contesto, desidero formulare i miei auguri ai nuovi presbiteri della diocesi di Roma, che sono stati ordinati questa mattina nella Basilica di San Giovanni in Laterano.

Preghiamo per le vittime dell’esplosione avvenuta in un grande albergo della capitale di Cuba, L’Avana. Cristo Risorto le guidi alla casa del Padre e doni conforto ai famigliari.

Un saluto speciale al gruppo di rifugiati ucraini e alle famiglie che li ospitano a Macchie presso Perugia.

(Regina Caeli in piazza San Pietro)

Lunedì 9

Percorrere
la strada
del dialogo

L’università è — o dovrebbe essere — il luogo dell’apertura della mente agli orizzonti del sapere, della vita, del mondo, della storia.

Naturalmente a partire da una prospettiva precisa, dallo studio approfondito e metodico di un ambito disciplinare, ma sempre nell’apertura, per una conoscenza integrale.

Questo orizzonte si raddoppia se pensiamo che ogni studente e studentessa che attraversa la soglia dell’università e la frequenta per alcuni anni, è, in sé stesso, un universo.

Nell’università, dunque, si incontrano due universi: quello del mondo, del sapere, e quello dell’uomo; non dell’uomo generico, ma proprio di quel giovane, con la sua storia e la sua personalità, i suoi sogni e le sue qualità intellettuali, morali, spirituali, i suoi limiti.

La sfida dell’università è far incontrare questi due orizzonti, perché possano dialogare, e da questo dialogo venga una crescita, anzitutto della persona stessa dello studente, che si forma, matura in conoscenza e libertà, nella capacità di pensare e di agire, di partecipare in modo critico e creativo alla vita sociale e civile, con una propria competenza culturale e professionale.

Mi vengono in mente le riflessioni di san John Henry Newman sull’università, là dove scrive che nell’ambiente universitario il giovane «si forma un abito mentale che dura tutta la vita, i cui attributi sono la libertà, l’equità, la calma, la moderazione e la saggezza», e aggiunge: «Indicherei questo come il frutto specifico dell’istruzione fornita dall’università, se confrontata con altri luoghi o modi di insegnamento, e questo è il principale scopo di una università nella sua cura degli studenti».

Questa idea di università non ha niente a che vedere con quella ci ha lasciato l’illuminismo, riempire la testa di cose.

È tutta la persona che va coinvolta lì, i suoi affetti e il modo di sentire non solo di pensare e anche il modo di agire.

Si trova un’armonia umana non quel pensare all’università come a una fabbrica di macrocefali che poi non sanno cosa fare con le mani o con il cuore.

Questa crescita umana delle persone non può che avere un riflesso positivo sulla società. Pertanto, investire sulla formazione, sulla scuola, sull’università è il miglior investimento per il futuro di un Paese.

Un altro aspetto: l’incontro tra le diverse culture. Sappiamo che non è automatico. Non basta mettere insieme professori e studenti di diverse provenienze. Occorre maturare una cultura dell’incontro.

Macerata ha dato i natali a un grande “campione” di questa cultura che è padre Matteo Ricci.

Un uomo che è andato oltre all’essere straniero; è diventato cittadino del mondo perché “cittadino delle persone”.

Mi congratulo con voi perché non solo custodite la sua memoria e promuovete gli studi su di lui, ma cercate di attualizzare il suo esempio di dialogo.

Quanto bisogno c’è oggi, a tutti i livelli, di percorrere con decisione questa strada!

Quanto i poteri del mondo sono abituati alla strada dell’esclusione, dello scarto!

“Ma perdere tempo con il dialogo?”. Sì, perché questo poi fruttifica.

(A docenti e studenti dell’università di Macerata)

Martedì 10

L’amicizia
è la via
più sicura
per realizzare
l’unità

La nona Giornata dell’amicizia tra copti e cattolici mi offre ancora l’opportunità di esprimere sentita gratitudine per i vincoli spirituali che uniscono la Sede di Pietro e la Sede di Marco.

Attenti alle parole di Cristo — «Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando» — possiamo continuare il nostro pellegrinaggio di fratellanza cristiana, specie in preparazione della celebrazione, il prossimo anno, del decimo anniversario del nostro memorabile incontro a Roma e del cinquantesimo dello storico incontro tra Paolo vi e Shenouda iii .

L’amicizia è la via più sicura per realizzare l’unità tra cristiani, poiché in essa vediamo il volto di Cristo, che non ci chiama servi ma amici e prega che «tutti siano una sola cosa».

Possa l’intercessione di sant’Atanasio, la cui vita e il cui insegnamento ispirano entrambe le nostre Chiese, guidarci nel cammino verso la comunione piena e visibile.

Prego perché lo Spirito Santo ci unisca ed effonda i suoi doni di consolazione sulla nostra famiglia umana sofferente, specialmente in questi giorni di pandemia e di guerra.

(Messaggio al Patriarca copto Tawadros ii )

Mercoledì 11

Rispetto
delle fragilità:
la lezione
dei nonni
ai bambini

Oggi parleremo di Giuditta, una eroina biblica... che difese Israele dai suoi nemici. È una giovane vedova giudea che, grazie alla fede, alla bellezza e alla astuzia, salva il popolo di Giuda dall’assedio di Oloferne... sgozzando il dittatore.

Dopo la grande avventura che la vede protagonista, Giuditta torna nella sua città, dove vive una bella vecchiaia fino a centocinque anni.

L’eroismo non è soltanto quello dei grandi eventi che cadono sotto i riflettori: ma spesso l’eroismo si trova nella tenacia dell’amore riversato in una famiglia difficile e a favore di una comunità minacciata.

Non è raro oggi avere tanti anni ancora da vivere dopo la stagione del pensionamento. Come far fruttare questo tempo? Come crescere in autorità, santità, saggezza?

Accade che la fine del lavoro rappresenti una fonte di preoccupazione.

Certo, c’è l’impegno, gioioso e faticoso, di accudire i nipoti; ma oggi di figli ne nascono sempre meno, e i genitori sono spesso più distanti, più soggetti a spostamenti... A volte sono anche più restii nell’affidare ai nonni spazi di educazione.

Qualcuno mi diceva, con ironia: “Oggi, i nonni, sono diventati più importanti, perché hanno la pensione”.

Ci sono nuove esigenze, che chiedono di rimodellare l’alleanza fra le generazioni.

La compresenza delle stesse si allunga.

Per i nonni, una parte importante della vocazione è sostenere i figli nell’educazione dei bambini.

I piccoli imparano la forza della tenerezza e il rispetto per la fragilità: lezioni insostituibili, che con i nonni sono più facili da impartire e da ricevere.

I nonni, da parte loro, imparano che la tenerezza e la fragilità non sono solo segni del declino: per i giovani, sono passaggi che rendono umano il futuro.

Quando si pensa all’eredità, alle volte pensiamo ai beni, e non al bene che si è fatto nella vecchiaia e che è stato seminato, quel bene che è la migliore eredità che noi possiamo lasciare.

Da vecchi, si perde un po’ di vista, ma lo sguardo interiore si fa più penetrante: si vede con il cuore. Si diventa capaci di vedere cose che prima sfuggivano.

Il Signore non affida i suoi talenti solo ai giovani e ai forti: ne ha per tutti, su misura di ciascuno, anche per i vecchi.

La vita delle nostre comunità deve saper godere dei carismi di tanti anziani, che per l’anagrafe sono già in pensione, ma che sono una ricchezza da valorizzare.

Questo richiede, da parte degli anziani stessi, una disponibilità generosa. Le precedenti abilità della vita attiva perdono la loro parte di costrizione e diventano risorse di donazione: insegnare, consigliare, costruire, curare, ascoltare.

Preferibilmente a favore dei più svantaggiati, che non possono permettersi alcun apprendimento o sono abbandonati alla solitudine.

Giuditta non è una pensionata che vive malinconicamente il suo vuoto: è un’anziana appassionata che riempie di doni il tempo che Dio le dona.

E così io vorrei che fossero le nostre nonne. Tutte coraggiose, sagge e che ci lascino non soldi, ma l’eredità della saggezza, seminata nei nipoti.

(Udienza generale in piazza San Pietro)