Nell’ultimo romanzo di Marino Magliani

Tre soldati
in fuga dalla storia

 Tre soldati  QUO-105
09 maggio 2022

Tre uomini e un cannocchiale, quello del tenente Dumont, eponimo dell’ultimo romanzo di Marino Magliani (Il cannocchiale del tenente Dumont, Roma, L’orma Editore, 2021, pagine 286, euro 20). Tre disertori scampati alla battaglia di Marengo, la polvere di hascisc scoperta nella campagna d’Egitto come tesoro prezioso nelle bisacce, la fuga come orizzonte, un sinuoso percorso di straniamento dal mondo delle appartenenze, degli obblighi d’uniforme, diremmo quasi dalla storia che trascura spietata e indifferente i destini dei singoli.

Siamo nell’estate del 1800, ma in fondo le coordinate temporali contano poco; molto, molto meno delle indicazioni topografiche del paesaggio ligure che scandiscono i capitoli della narrazione mentre dietro le quinte ci accompagnano appunti e dispacci redatti dal dottor Zoomer, medico che ha organizzato una rete di spie per capire cosa se ne faranno dell’hascisc i tre disertori e soprattutto se è vero che sia proprio la sostanza in questione responsabile dell’infiacchimento del glorioso esercito della Rivoluzione.

Tra coltivazioni lustrate da piogge notturne e poi inondate di sole estivo, ghiaioni e pietraie a mezza costa, col riverbero della luce sul mare a volte intravisto tra gli ulivi, più spesso immaginato, i tre protagonisti come magneti attirano il lettore dentro questa fuga perenne e soprattutto dentro la loro percezione di un cammino sghembo, rapsodico, che a volte li trascina indietro come in una spirale tra incontri improbabili, bisogni corporali, ripari precari, lettere nascoste e sospetti reciproci, ricordi.

Come in un dramma di Samuel Beckett nel corso della narrazione le parole rimbalzano sulla scena tra rivelazioni intime e notazioni di superficie, fintamente casuali. Magliani è magistrale nell’intessere dialoghi che animano una presenza reale dei personaggi. Un’efficacia da presa diretta quella ottenuta dall’autore, mimando un distacco da narratore ottocentesco che moltiplica l’effetto verità ma, e questo è sorprendente, insinua lentamente nel lettore una profonda empatia coi fuggiaschi. Il tutto orchestrato su un orizzonte di instabilità, di vita in perenne progressivo disfacimento ma che invece recalcitra e reclama la sua voglia di durare nonostante la presenza laterale e ossessiva della morte. A questa convinzione disperata ma autenticamente umana fa da contraltare l’indifferenza sovrana e smagliante della natura che a poco a poco assimila i tre disertori che divengono così creature primordiali, negli abiti cenciosi, nei volti bruciati dal sole solcati da rughe e barbe incolte, minati dalla fatica e dalla malattia.

Se centrale è la parola ancora più dirimente è lo stile, una prosa limpida, assieme tagliente, esatta ma evocativa, che sa abbandonarsi a un periodare avvolgente per poi frangersi in ritmi improvvisamente spezzati e nervosi per poi riguadagnare una sintassi di sopraffina, naturale eleganza.

«La vastità scintillante e rigonfia del tramonto si ritira dalle pietraie e a guardarlo da giù lo spartiacque è tutto un passaggio di fiamme. La sera non la stabilisce la luce, ma l’espansione dei rumori su tutto il torrente, come se finora avesse taciuto, e di notte lo alimentasse una vena segreta (…). Si svegliano le rane, solitarie, a pattuglie, e quando tornano a tacere è come se restasse in sospeso l’alito della fronda che precede i rintocchi dell’Ave Maria e la processione dei braccianti. Le cose che si ripetono, com’è per tutto in Liguria».

Già, la Liguria, luogo di nascita di Marino Magliani che da anni vive in Olanda e non è un caso che il suo dottor Zoomer ogni tanto indugi su suoi particolari nativi, regalando alla narrazione brevi, casuali interludi di atmosfera nordica.

Particolari che accrescono il senso di distanza tra il vasto mondo e la vicenda quasi claustrofobica dei tre imprigionati in un destino che, come dicevamo, pare sin dall’inizio irrimediabilmente segnato.

Eppure il finale regala una sorpresa, che però si inserisce perfettamente nella conduzione narrativa di Magliani, perché si insinua gradatamente, quasi l’autore avesse un pudore di esagerare in una concatenazione di cause ed effetti. E allora questo finale lo vediamo come fosse in controluce, quella presa diretta abbandona la scena e la intuiamo da lontano, sfumata eppure incredibilmente reale.

di Saverio Simonelli