Tre linee direttrici: povertà, umiltà e pace

 Tre linee direttrici:  povertà, umiltà e pace  QUO-105
09 maggio 2022

Pubblichiamo stralci dall’introduzione di Carlo Ossola al volume Giovanni Paolo i , Il Magistero. Testi e documenti del Pontificato (pagine 9-18).

Il patriarca Albino Luciani entra in conclave il 25 agosto 1978, con una fitta agenda di impegni veneziani per il mese di settembre; dopo quattro scrutini, viene eletto Papa il 26 e nel nome che si sceglie, Giovanni Paolo, intende suggerire il desiderio di continuità con il magistero di Giovanni xxiii e di Paolo vi , nell’eredità del Concilio Vaticano ii (sarà il suo primo «vogliamo» nel Radiomessaggio Urbi et Orbi del 27 agosto 1978). In esso egli si appella agli «Homines fratres totius mundi!» affinché trovi luminoso giorno l’aurora di speranza ch’egli intravede albeggiare: «Quasi quaedam spei aurora mundo illucescit». Questa speranza — descritta con metafora continuata — diventa epifania di quella pienezza di luce («ut mundo dies oriatur clarior et suavior») che è il Cristo «sol iustitiae» (da Malachia 3, 20). La formula biblica ha una lunga tradizione patristica che culmina in Dante, tanto nelle Epistole (specie v , 1) che nella Commedia: in più punti infatti (Purg. viii , 10-12; Purg. xxxi , 121-123; Par. i , 37-42; Par. ix , 7-9; Par. xviii , 100-105; Par. xxix , 97-102; Par. xxxi , 124-129) uno dei migliori esegeti antichi del poema, Benvenuto da Imola, richiama il concetto come fondante per Dante segnalando appunto — per Purg. xxxi , 121-123 — che «est propriissima comparatio de sole ad Christum, qui est sol iustitiae». Del resto, divenuto Successore di Pietro, Albino Luciani porrà Dante all’inizio stesso della propria catechesi nell’Udienza generale del 20 settembre 1978, dedicata alla seconda «lampada di santificazione», la speranza.

La breve chiosa sul «sol iustitiae» suggerisce una contiguità non episodica tra paradigmi teologici e paradigmi letterari nell’opera di Albino Luciani. Non è prova soltanto la serie delle lettere immaginarie, indirizzate ai grandi delle Lettere universali, raccolte in Illustrissimi, bensì anche le citazioni che — da vescovo — egli rivolge alle proprie comunità. Se nel ministero veneto (vescovo di Vittorio Veneto, 1958; patriarca di Venezia, 1969) attingeva spesso agli autori di lingua veneta, nelle poche settimane in cui fu vescovo di Roma attinse a Trilussa (Udienza generale: la fede, del 13 settembre 1978); alla stessa poesia La Guida era già ricorso in Illustrissimi così come ai versi di Giuseppe Gioachino Belli. L’evocazione è tanto più rilevata in quanto segue, come secondo paragrafo, l’iniziale richiamo a Giovanni xxiii , che si era invece soffermato sulle virtù cardinali e teologali: «Papa Giovanni, in una sua nota, che è stata anche stampata, ha detto: “Stavolta ho fatto il ritiro sulle sette lampade della santificazione”».

Il richiamo alla letteratura è per altro una sorta di accessus più discorsivo e nell’ordine della parola quotidiana ai temi che gli sono più cari, innanzi a tutti la povertà e l’umiltà. Tale, per Albino Luciani, la chiave per leggere i Promessi Sposi: «“Storia di povera gente” il vostro [scil. di Manzoni] romanzo. Povero l’ambiente principale: montagna, campagna, lago. Poveri i protagonisti». Ora proprio in un’agenda dell’estate 1970 troviamo — pubblicate da Stefania Falasca — delle note illuminanti sulla «Chiesa povera» nelle quali osserva: «La bandiera della povertà ecclesiale l’ha inalberata Cristo con tutti i veri riformatori (da san Francesco a Charles de Foucauld)» (S. Falasca, “La povertà secondo Luciani. Un inedito del 1970”, in «Avvenire», 26 agosto 2015, p. 3). Non si tratta soltanto del secondo celebre «vogliamo» riferito alla «Chiesa, che nella sua stessa storia attraverso i secoli si è arricchita di esempi di santità e di eroica perfezione, sia nell’esercizio delle virtù evangeliche sia nel servizio ai poveri, agli umili, agli indifesi». La perfezione di un’eroica povertà era da cercarsi — appunto — nel modello e nell’esempio dei «veri riformatori (da san Francesco a Charles de Foucauld)». Su quest’ultimo, in particolare, l’attenzione di Albino Luciani si era già appuntata sin dal 1941, nel chiosare principalmente il volume Reconnaissance au Maroc, così concludeva — associando nuovamente i grandi «riformatori», san Francesco, sant’Ignazio, Charles de Foucauld: «Ho sotto gli occhi due ritratti di de Foucauld: l’allievo ufficiale di Saint-Cyr e il missionario. Il viso dell’ufficiale non dice quasi niente: rotondo, grasso, non ha un’espressione; gli occhi infossati nell’orbita, sembrano più piccoli, causa il grasso che li preme; [...]. Sul viso del missionario, i tratti rivelano decisione ed energia; il sorriso esprime amor di Dio, gli occhi splendono. Si pensa a s. Francesco d’Assisi e a s. Ignazio. Come si spiega che due ritratti così dissimili appartengano alla stessa persona? Si spiega così: la grazia della vocazione ha trasformato quella persona; ha impresso un sigillo sul suo volto, gli ha dato il significato di un vessillo, la potenza di un canto!» (A. Luciani, “Carlo de Foucauld”, in «Amici del Seminario Gregoriano», giugno-ottobre 1941, p. 3-4).

Non è dunque solo una coincidenza che ora, negli stessi mesi, e per opera di un nuovo Francesco ignaziano, Charles de Foucauld e Albino Luciani si trovino uniti qui a Roma nella celebrazione della loro santità.

La frequentazione dell’opera di Foucauld è successivamente confermata da un appunto, su un’agenda alla data del 25 marzo 1971 che si riferisce a Come loro di René Voillaume, titolo italiano dell’affresco che fece conoscere Charles de Foucauld al largo pubblico: Au cœur des masses. Le masse, intese come corpo vivo dell’umanità, masse umilmente votate al lavoro, sacrificate nelle oppressioni e nelle migrazioni, come già si era espresso Paolo vi nella giustamente celebre Populorum Progressio: «Ma seppero [i missionari] anche coltivare le istituzioni locali e promuoverle. In parecchie regioni, essi sono stati i pionieri del progresso materiale come dello sviluppo culturale. Basti ricordare l’esempio del padre Carlo de Foucauld, che fu giudicato degno d’esse chiamato, per la sua carità, il “Fratello universale”, e al quale si deve la compilazione di un prezioso dizionario della lingua tuareg. È Nostro dovere rendere omaggio a questi precursori troppo spesso ignorati, uomini sospinti dalla carità di Cristo» (Populorum Progressio, Parte I; Per uno sviluppo integrale dell’uomo, sez. 2: La Chiesa e lo sviluppo, § 2). E naturalmente Albino Luciani ebbe subito a sottolineare proprio quel passo su Charles de Foucauld “Fratello universale” in una sua riflessione di poco successiva.

È la stessa linea — da san Francesco a Charles de Foucauld — che ritroviamo oggi nella Lettera enciclica di Papa Francesco Fratelli tutti del 3 ottobre 2020, che appunto comincia con la citazione di san Francesco e termina con quella di Charles de Foucauld “Fratello universale”: «In questo spazio di riflessione sulla fraternità universale, mi sono sentito motivato specialmente da san Francesco d’Assisi, e anche da altri fratelli che non sono cattolici: Martin Luther King, Desmond Tutu, il Mahatma Gandhi e molti altri. Ma voglio concludere ricordando un’altra persona di profonda fede, la quale, a partire dalla sua intensa esperienza di Dio, ha compiuto un cammino di trasformazione fino a sentirsi fratello di tutti. Mi riferisco al beato Charles de Foucauld (§ 286).

«Egli andò orientando il suo ideale di una dedizione totale a Dio verso un’identificazione con gli ultimi, abbandonati nel profondo del deserto africano. In quel contesto esprimeva la sua aspirazione a sentire qualunque essere umano come un fratello, e chiedeva a un amico: “Pregate Iddio affinché io sia davvero il fratello di tutte le anime di questo paese”. Voleva essere, in definitiva, “il fratello universale”. Ma solo identificandosi con gli ultimi arrivò ad essere fratello di tutti. Che Dio ispiri questo ideale in ognuno di noi. Amen (§ 287)».

Nell’«ultimo posto» risiede la certezza dell’universalità: in uno dei suoi testi più ispirati Albino Luciani (ancora una volta unendo spiritualità e letteratura) aveva associato il principio del «fratello universale» di Charles de Foucauld all’«uomo dai diecimila cuori» di Molière / Shakespeare: «se non diventiamo come de Foucauld “fratello universale”, o, come diceva Shakespeare, “uomo dai diecimila cuori”, ci sarà pochissima promozione umana».

Sappiamo che il modello di san Francesco è, nelle opere di Albino Luciani, il riferimento costante, insieme a quello di François de Sales; è utile ricapitolarlo in una delle omelie che precedono di poco l’elezione pontificale; in quel discorso, del 30 ottobre 1977, sembra già essere tracciato il progetto di quello che sarà il futuro pontefice: «Egli volle [san Francesco] una riforma, ma dall’interno, ma d’accordo con il Papa e i vescovi, in uno spirito di serenità e di letizia, che s’intonava perfettamente con la sua indole umana serena e serenante» (Omelia nel quarantesimo anniversario della morte di monsignor Giaconto A. Longhin, del 30 ottobre 1977).

L’anno successivo riprenderà quella “riforma” con lo stesso sguardo «sereno e serenante», come riconoscerà — il 6 ottobre 1978 — il cardinale Joseph Ratzinger nell’omelia del pontificale in suffragio di Giovanni Paolo i . Sempre in quella celebrazione liturgica, ricordando i funerali di Papa Luciani officiati nella basilica vaticana il 4 ottobre 1978, affermava: «È stato sepolto il giorno di san Francesco d’Assisi, l’amabile santo al quale era così simile».

Ancora una volta associando il santo a una grande figura letteraria del xx secolo, Georges Bernanos, con acuta e radicale sapienza Albino Luciani vedeva in san Francesco il modello di quello che sarà il proprio motto, humilitas: «San Francesco di Assisi — scrive Bernanos — non ha sfidato l’iniquità (che pur era nella Chiesa), non ha tentato di fronteggiarla; si è gettato nella povertà...; invece di tentare di togliere alla Chiesa i beni mal acquisiti, l’ha colmata di tesori invisibili».

Con la povertà e l’umiltà, il Papa fa appello alla pace. Ancora nel Radiomessaggio Urbi et Orbi del 27 agosto 1978, in termini che ricordano — nella versione italiana — il lessico di Pierre Teilhard de Chardin, il Papa esorta nella clausola finale: «Tutti siamo impegnati [“astringimur”] nell’opera di elevare il mondo a una sempre maggiore giustizia, a una pace più stabile, a una più leale cooperazione». È il richiamo alla Lettera enciclica di Giovanni xiii Pacem in terris dell’11 aprile 1963: «de pace omnium gentium, in veritate, iustitia, caritate, libertate constituenda», come recita la clausola del titolo.