Un testo di Jorge Mario Bergoglio del 1973

L’anima argentina
e la spiritualità dei gauchos

 L’anima argentina e la spiritualità dei gauchos  QUO-104
07 maggio 2022

Ripubblichiamo stralci dalla prefazione al Martín Fierro scritta nel 1973 dall’allora Jorge Mario Bergoglio. La traduzione è ripresa dal volume Martín Fierro nella collana La biblioteca di Papa Francesco (La Civiltà Cattolica-Corriere della sera, Milano, Rcs 2014).

Come ogni racconto popolare, il Martín Fierro comincia con una descrizione del paradiso originario. Dipinge una realtà idilliaca, in cui il gaucho vive secondo il lento ritmo della natura, circondato dai suoi affetti, lavorando con gioia e destrezza, divertendosi con i suoi pari, integrato in un mondo semplice e umano. Che cosa vuole dirci questo scenario?

In primo luogo, l’autore non è mosso da una sorta di nostalgia per un «gauchesco Eden perduto». L’espediente letterario di dipingere una situazione ideale al principio di una narrazione non è che una presentazione dell’ideale stesso. Il valore cui intende dare forma non sta dietro, alle origini, ma avanti, nel progetto. Alle origini vi è la dignità del figlio di Dio, la vocazione, la chiamata a dare forma a un progetto. È un «porre la fine al principio» (idea, del resto, profondamente biblica e cristiana). La direzione che conferiremo alla nostra convivenza avrà a che fare con il tipo di società che vogliamo formare: con il suo telostipo. Lì sta la chiave del carattere di un popolo. Questo non significa ignorare gli elementi biologici, psicologici e psicosociali che influiscono sulle nostre decisioni. Non possiamo fare a meno di portarci dietro (nel senso negativo di limiti, di condizionamenti, di zavorre, ma anche nel senso positivo del portare con noi, dell’avere dentro, dell’annettere a noi) l’eredità ricevuta, i comportamenti, le preferenze, i valori che si sono andati costituendo nel corso del tempo. Una prospettiva cristiana però (e questo è uno dei contributi del cristianesimo all’umanità nel suo insieme) è in grado di valutare sia ciò che è dato, ciò che è nell’uomo — e non può essere altrimenti — sia ciò che scaturisce dalla sua libertà, dalla sua apertura al nuovo; in definitiva, dal suo spirito in quanto dimensione trascendente, sempre secondo le potenzialità di ciò che è dato.

E dunque, i condizionamenti della società e la forma che hanno assunto, così come le scoperte e le creazioni dello spirito finalizzate a un sempre maggiore ampliamento dell’orizzonte umano, insieme alla legge naturale insita nella nostra coscienza, si mettono in gioco e si realizzano concretamente nel tempo e nello spazio: in una comunità reale, fatta di persone che condividono una terra, che si pongono obiettivi comuni, che costruiscono un loro modo di essere uomini, di coltivare i molteplici legami che le uniscono attraverso le tante esperienze condivise, preferenze, decisioni e avvenimenti.

Così si creano un’etica comune e l’apertura verso un destino di pienezza che definisce l’uomo in quanto essere spirituale. Quest’etica comune, questa «dimensione morale», è quella che permette alla moltitudine di svilupparsi nel suo insieme, senza che ci si trasformi in reciproci nemici. Pensiamo a un pellegrinaggio: partire da un luogo e dirigersi verso una meta comune permette alla colonna di rimanere tale, al di là del diverso ritmo o passo di ciascun gruppo o individuo.

Sintetizziamo, allora, questo concetto. Che cosa fa sì che molte persone formino un popolo? In primo luogo, vi è una legge naturale, e poi un’eredità. In secondo luogo, un fattore psicologico: l’uomo si fa uomo (il singolo individuo o la specie nel suo evolversi) nella comunicazione, nella relazione, nell’amore verso i suoi simili. Nella parola e nell’amore. E in terzo luogo, questi fattori biologici e psicologico-evoluti vi si realizzano, si mettono davvero in gioco nel libero agire, nella volontà di legarci agli altri in un certo modo, di costruire la nostra vita con i nostri simili in un ventaglio di preferenze e pratiche condivise (Agostino definiva il popolo come «un insieme di esseri razionali associato dalla concorde comunione delle cose che ama»).

La dimensione «naturale» cresce trasformandosi in «culturale», «etica»; l’istinto gregario acquista forma umana nella libera scelta di diventare un «noi». Una scelta che, come ogni azione umana, tende a farsi abitudine (nel senso migliore del termine), a generare un sentimento radicato e a produrre istituzioni storiche, fino al punto che ciascuno di noi viene al mondo in seno a una comunità già costituita (la famiglia, la «patria») senza che ciò neghi la libertà responsabile della persona. E tutto ciò trova il suo saldo fondamento nei valori che Dio ha inculcato nella nostra natura umana; nel soffio divino che ci anima da dentro e che ci rende figli di Dio. Questa legge naturale che ci è stata regalata ed è stata impressa in noi affinché «si consolidi attraverso le età, si sviluppi negli anni e cresca con il passare del tempo». Questa legge naturale che — nel corso della storia e della vita — è destinata a consolidarsi, svilupparsi e crescere è ciò che ci salva dal cosiddetto relativismo dei valori consensuali. I valori non sono soggetti a consenso: semplicemente, sono. Nel gioco accomodante del «cercare il consenso sui valori» si corre sempre il rischio (risultato già scontato) di livellare verso il basso. E allora non si costruisce più su una base solida, ma si entra nella violenza della degradazione. Qualcuno ha detto che la nostra civiltà, oltre a essere una civiltà dell’usa e getta, è una civiltà «biodegradabile».

Per tornare al nostro poema, Martín Fierro non è la Bibbia, certo. Però è un testo nel quale, per motivi diversi, noi argentini ci riconosciamo, un appiglio per raccontarci qualcosa della nostra storia e sognare il nostro futuro: Yo he conocido esta tierra/ En que el paisano vivía/ Y su ranchito tenía/ Y sus hijos y mujer/ Era una delicia el ver/Cómo pasaba sus días.

Questa è dunque la situazione iniziale, nella quale si scatena il dramma. Il Martín Fierro è, in primo luogo, un poema inclusivo. Tutto verrà poi gettato alle ortiche da una specie di ruota del destino, incarnata da varie figure, tra le quali vi sono il Giudice, il Sindaco, il Colonnello. Sospettiamo che questo non sia un conflitto meramente letterario. Che cosa si nasconde dietro il testo?