Ricordo di Francesco D’Agostino, morto a Roma il 3 maggio

Un Maestro
che sfidava il pensiero

 Un Maestro  che sfidava il pensiero  QUO-102
05 maggio 2022

Volevo bene, voglio bene a Francesco D’Agostino. Sarà ricordato come il Maestro di una scuola ricca di studiosi che hanno imparato da lui a coltivare il rigore come metodo che non appanna l’originalità e ne costituisce anzi l’insostituibile premessa. Come l’autore di oltre mille pubblicazioni. Come l’intellettuale che ha animato con la sua passione e la sua sterminata cultura un numero impressionante di istituzioni e organizzazioni scientifiche, di convegni, di momenti di confronto a ogni livello e in ogni luogo.

Gli ho voluto bene, gli voglio bene senza essere stato suo allievo e senza essere stato sempre d’accordo con lui. Stupito, fin dai nostri primi incontri intorno al tavolo di un dibattito o di un momento conviviale, che facilmente si confondeva con il primo, dalla facilità con la quale estraeva da una memoria prodigiosa una bibliografia pronta all’uso, la citazione di un autore sconosciuto, un aneddoto, la scena di un film. Invitandoti, sfidandoti a pensare quel che, semplicemente, non avevi e non avresti immaginato. Senza fare sconti ai suoi interlocutori, ma sempre senza alzare la voce.

L’opera di Francesco D’Agostino è e resterà un punto di riferimento per tutti coloro che, non solo in Italia, si occupano di filosofia del diritto e di bioetica. Ha sempre rifiutato di considerare il lavoro del pensiero come un campo di battaglia fra “parti” e i tentativi di farne il campione di uno schieramento si sono spesso dovuti misurare con la sorpresa di vederlo sgusciare verso altre direzioni. Questo stile di libertà, di onestà intellettuale, di insaziabile curiosità, inconfondibile come il sorriso che annunciava le sue ficcanti provocazioni, corrispondeva in realtà a una visione dell’essere umano che egli intendeva e difendeva come motore di inclusione e condivisione. Nella consapevolezza che un percorso così lungo e complesso consente e consentirà inevitabilmente diverse “ermeneutiche”, nel suo approccio al diritto e alla bioetica ho sempre trovato una spinta in questa direzione.

D’Agostino ha rilanciato con forza il tema del principio naturale del diritto, ma rifiutando di interpretarlo in senso immediatamente contenutistico. Questo è l’errore del giusnaturalismo tradizionale, rispetto al quale è necessario rivendicare il carattere «strettamente strutturale» di quel principio, che si traduce nella necessità «che gli uomini si riconoscano reciprocamente eguali, liberi, responsabili, come agenti in buona fede, nella rinuncia alla violenza e alla frode». Riconoscere in questa consapevolezza la radice del primato della persona, dell’amore per la persona, per tutte le persone, che genera l’impegno per la loro protezione e i loro diritti, significa evidentemente porre anche alcuni essenziali, concreti contenuti normativi. Significa però al tempo stesso — e qui Francesco citava Panikkar — imparare a porre non più e non soltanto la domanda ontologica (che cosa è l’essere?) e quella antropologica (che cosa è l’uomo?), ma l’essenziale domanda relazionale: chi sei tu? Di questa attenzione, di questa passione per la scoperta, il rispetto del “tu” D’Agostino ha saputo fare il vettore di continuità fra il tempo e i risultati dello studio e dell’insegnamento e il tempo e le esperienze della vita. E questa, oltre che una chiave di lettura decisiva per comprendere la sua filosofia del diritto, è probabilmente la ragione per la quale era facile volergli bene.

Allo schema della contrapposizione fra bioetica laica e bioetica cattolica, insieme fuorviante e provinciale, di fronte alle sfide della bioetica globale, Francesco rispondeva con la tesi che nulla può essere più dannoso per la bioetica dell’insistenza sul conflitto fra politeismo e monolitismo (se non monoteismo) etici. A ognuno spetta il dovere di inventare un proprio modo personale e inimitabile di rispondere all’appello del bene e il monolitismo è dunque senz’altro “cattivo”, ma questo non contraddice l’unità della bioetica come unità di senso: se i valori sono plurimi, lo sono, paradossalmente, per unire e non per dividere gli uomini. Lo sono nel senso in cui sono plurimi i linguaggi dell’umanità: «Tutti diversi tra loro, ma tutti anche traducibili reciprocamente», perché tutti manifestazioni «di un’unica esigenza antropologico-relazionale fondamentale, quella di comunicare». La bioetica è appunto pensiero comunicativo, non disgiuntivo. E proprio per questo pensiero che ha bisogno di chiarezza nelle proprie posizioni e di umiltà, senza mai rinunciare all’ascolto delle ragioni dei tanti “tu” che incontriamo nella nostra vita.

L’ultima (significativamente) delle “parole” di bioetica incluse da Francesco in un volume del 2004 è “vita”. Il senso della vita viene ogni giorno sfidato dallo scandalo, dalla separazione della morte e di fronte alla coscienza si spalanca, a partire dalla meditatio mortis, l’abisso del nulla. Ritorna così – come leggiamo in queste pagine – l’argomento sottile, la tentazione diabolica del Mefistofele di Goethe: sarebbe meglio che nulla nascesse, «perché tutto ciò che nasce merita di essere distrutto». Avevi ragione, amico mio. Mefistofele mente, non sa dire la verità perché non è in grado di comprenderla. La vita è portatrice di senso, di quel senso che costruiamo, condividiamo con altri. Per questo la morte «interrompe, ma non toglie senso alla vita; spezza un filo sottile (secondo un’altra immagine mitica), ma non lo annienta».

Il dono resta. Quello dell’amore e dell’amicizia per molti. Quello di una vita di lavoro del pensiero per tutti.

di Stefano Semplici

 

Tra le voci più autorevoli e trasversalmente ascoltate

Francesco D’Agostino, filosofo, giurista, accademico, fra le voci più autorevoli e trasversalmente ascoltate sui temi di bioetica, si è spento il 3 maggio a Roma dove era nato il 9 febbraio del 1946. La sua ricerca, a partire dalla bussola dei maestri Sergio Cotta e Vittorio Mathieu, non ha avuto timore di spingersi in terreni resi ostici dalla contingenza del dibattito. Bioetica, tutela del diritto alla vita, famiglia e procreazione: il suo pensiero si irraggiava, e non a caso, dalla teoria della giustizia alla quale ha dedicato gran parte del suo impegno. Membro fondatore del Comitato nazionale per la bioetica che ha presieduto negli anni 1995-1998 e 2001-2006 era anche presidente dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani (Ugci) nonché membro della Pontificia Accademia per la Vita. Insegnamento e divulgazione furono elementi fondanti del suo approccio di intellettuale e di credente. Direttore delle riviste «Iustitia» e «Nuovi Studi Politici», condirettore della «Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto». Ha insegnato nei più prestigiosi atenei, dalla cattedra o come visiting professor all’estero (Paris ii, Atene, Friburgo, Madrid Complutense, Navarra, Valencia, Granada, Buenos Aires, Mendoza, Santiago del Cile). Ordinario dal 1980, dopo aver insegnato nelle università di Lecce, Urbino e Catania dal 1990 è stato professore di Filosofia del diritto e di Teoria generale del diritto presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata, in cui ha diretto il Dipartimento di Storia e Teoria del Diritto insegnando Teoria generale del diritto e Biogiuridica. Ha insegnato anche alla Lumsa e alla Pontificia Università Lateranense. Un uomo che ha saputo «vivere con piena consapevolezza la sua epoca, portando in essa la luce di una fede vissuta e pensata con autenticità» ha scritto in un messaggio di cordoglio alla vedova signora Rossella, il segretario generale della Cei, monsignor Stefano Russo