L’arcivescovo Peña Parra all’Associazione internazionale di carità politica

La fratellanza universale non è un’utopia

 La fratellanza universale  non è un’utopia  QUO-102
05 maggio 2022

Pubblichiamo quasi per intero l’intervento pronunciato dall’arcivescovo Edgar Peña Parra, sostituto della Segreteria di Stato, durante l’incontro sull’enciclica «Fratelli tutti» svoltosi ieri, 4 maggio, a Roma presso l’Aula Conferenze Pio xi di palazzo San Calisto, per iniziativa dell’Associazione internazionale Carità Politica.

Ringrazio il Prof. Luciani per il cortese invito e per il tema che mi ha proposto di trattare: una riflessione sull’enciclica Fratelli tutti, con particolare riferimento al capitolo v , dedicato a «La migliore politica».

[Esso] ci permette di “giocare in casa”: proprio in esso infatti, il Papa usa l’espressione che caratterizza questo sodalizio: «carità politica». Può essere utile contestualizzarne l’ambito. Il Santo Padre sembra rispondere a un’obiezione che da più parti si leva, ovvero se il tema dell’enciclica, la fratellanza universale, sia soltanto una mera utopia. Non è così, afferma Francesco, che all’obiezione rilancia con inviti concreti a sviluppare percorsi che assicurino la reale possibilità della fraternità. Proprio a questo punto richiama che «qualunque impegno» in tal senso è «un esercizio alto della carità. Infatti, un individuo può aiutare una persona bisognosa ma, quando si unisce ad altri per dare vita a processi sociali di fraternità e di giustizia per tutti, entra nel “campo della più vasta carità, della carità politica”» (Ft, 180).

La carità politica è, in altre parole, l’aiuto al fratello coniugato al plurale. Unire la politica con la più alta virtù cristiana, la carità, non è una novità di Papa Francesco e nemmeno degli ultimi Pontefici: la politica come “forma più alta di carità” è un’espressione che risale a Papa Pio xi , che ne parlò in un Discorso pronunciato quasi un secolo fa, il 23 dicembre 1927.

Il Pontefice attuale in Fratelli tutti si pone in questa scia, con un’accentuazione particolare: quella di voler riportare la “carità politica” alla concretezza. Infatti, parlare della politica come della forma più alta di carità sembra oggi molto meno pregnante che in passato: l’espressione si è logorata con l’uso, oltre che a motivo della crisi della politica e di tutto ciò che, più generalmente, riguarda la dimensione sociale e collettiva. Pensiamo al risorgere dei nazionalismi e all’affievolirsi del cammino della pace presso la Comunità internazionale, evidenziati dal Papa, ad esempio, nel corso del recente viaggio a Malta. Ora, mi pare che il Pontefice intenda carità nel senso diretto e concreto del servizio a chi è nel bisogno, del prestare aiuto a chi si trova nel disagio, senza attendere nulla in cambio. È questo il senso della carità che ha sottolineato tante volte: un amore gratuito e disinteressato verso chi ha meno di noi. In Fratelli tutti prosegue infatti dicendo: «Questa carità, cuore dello spirito della politica, è sempre un amore preferenziale per gli ultimi» (Ft, 187). Naturalmente ciò non significa intendere la politica come un’opera di volontariato, bensì accoglierne quello che il Pontefice definisce “il cuore del suo spirito” e che consiste in un movimento perenne di uscita dai propri interessi verso quelli dei più bisognosi. In tal senso è diretta e concreta la definizione di carità che il Papa riporta all’inizio del capitolo iii dell’enciclica, Pensare e generare un mondo aperto, dove spiega che l’amore è ciò che «fa uscire la persona da sé stessa verso l’altro». Una nota del testo riporta in proposito l’illuminante definizione di san Tommaso d’Aquino, che esprime la realtà dell’amore in due parole, «exstasim facere»: uscire da sé, compiere ininterrottamente (il verbo usato dal Dottore della Chiesa è all’infinito) un processo che dall’io si apra agli altri.

Ora, la politica per il Papa è chiamata a questo: a ritrovare il suo perché nella polis, nell’insieme; ad articolare le proprie dinamiche verso il servizio all’altro e del più bisognoso. In questo senso il Pontefice si è espresso ad Atene, nel discorso “politico” tenuto nella polis per eccellenza, presso la culla della democrazia, avvalendosi di una citazione di Alcide de Gasperi. Riascoltiamo alcune parole: «Affinché il bene sia davvero partecipato, un’attenzione particolare, direi prioritaria, va rivolta alle fasce più deboli. Questa è la direzione da seguire, che un padre fondatore dell’Europa indicò come antidoto alle polarizzazioni che animano la democrazia ma rischiano di esasperarla: “Si parla molto di chi va a sinistra o a destra, ma il decisivo è andare avanti e andare avanti vuol dire andare verso la giustizia sociale”». Secondo questa visione carità e politica sono intimamente congiunte. La carità politica, che in negativo si traduce nella lotta all’ingiustizia e alla disuguaglianza e, in positivo, nell’edificazione di una società più giusta e inclusiva a partire dai diritti dei più poveri, appare dunque come la categoria chiave dell’agire politico non solo “cristiano”, ma più semplicemente umano. Tuttavia, al centro dello scenario politico odierno sembrano essersi da tempo affacciate altre due parole. E non sono né carità, né politica.

Populismi e liberalismi. Così si intitola il primo paragrafo del capitolo v . Con tali termini sembra che il Papa voglia dire anzitutto che cosa non è buona politica. Non comincia tuttavia con un’analisi che contrappone le istanze liberaliste, protese alla libera iniziativa in ogni campo, con il rischio di rendere le persone individui e di omologarle, a quelle populiste, di stampo più sovranista e nazionalista. Il Papa si soffermerà in seguito su questi aspetti, ma per prima cosa affronta i due ambiti senza contrapporli, bensì assimilandoli. Individua infatti qualcosa di comune nei populismi e nei liberalismi: il loro carattere nocivo è dato dal fatto che ambedue gli “ismi” disprezzano i più deboli... Quando il principio dominante è una eccessiva sovranità nazionale o lo spadroneggiare dell’economia di mercato, al centro non vi è più la concretezza della vita sociale. La persona e la comunità reali vengono relegate in secondo piano e così le idee vengono prima della realtà.

Quale dunque la via tra populismi e liberalismi, tra sovranismo e perdita delle radici, tra neo-protezionismo e capitalismo selvaggio? Il Papa propone di partire dal popolo reale. Esso rappresenta la categoria concreta che richiama la partecipazione attiva di tutti; è, secondo il Pontefice, una realtà che sfugge alle facili categorizzazioni: «essere parte del popolo è far parte di un’identità comune fatta di legami sociali e culturali» (Ft, 158). La persona e i popoli, insomma, prima di ogni idea ad essi relativa, in conformità con l’assioma secondo cui la realtà è più grande dell’idea, principio sovrano nella visione socio-politica del Papa. È una concezione che in fondo si àncora ai princìpi della Dottrina sociale della Chiesa, la quale ha sempre posto le persone a fondamento della società e i popoli alla base dello Stato, intendendo la società a servizio della persona e lo Stato a servizio del popolo. Dunque, a partire dalla realtà più ampia di popolo, e opponendosi alle ideologizzazioni limitanti del liberalismo sfrenato dei populismi selettivi, il Papa fa una proposta: il “popolarismo”.

Si tratta di una visione in cui protagonista non è un’ideologia strumentale, l’«abilità di qualcuno di attrarre consenso allo scopo di strumentalizzare politicamente la cultura del popolo, sotto qualunque segno ideologico, al servizio del proprio progetto personale e della propria permanenza al potere» (Ft, 159), ma il servizio a «un popolo vivo, dinamico e con un futuro, costantemente aperto a nuove sintesi assumendo in sé ciò che è diverso» (Ft, 160)...

Con lo stesso intento il Pontefice si è espresso nel discorso di Atene (4 dicembre 2021), dove ha rilevato due minacce che riguardano il governo del popolo. La prima è rappresentata dall’arretramento della democrazia, la quale «richiede la partecipazione e il coinvolgimento di tutti e dunque domanda fatica e pazienza. È complessa, mentre l’autoritarismo è sbrigativo e le facili rassicurazioni proposte dai populismi appaiono allettanti». La seconda minaccia è invece rappresentata dallo scetticismo per la democrazia, «provocato dalla distanza delle istituzioni, dal timore della perdita di identità, dalla burocrazia. Il rimedio a ciò non sta nella ricerca ossessiva di popolarità, nella sete di visibilità, nella proclamazione di promesse impossibili o nell’adesione ad astratte colonizzazioni ideologiche, ma sta nella buona politica […], in quanto responsabilità somma del cittadino, in quanto  arte del bene comune». Anche in questo caso si propone di uscire dalla logica estenuante dell’accentuare le contrapposizioni, riassunta come “parteggiare”, per ritornare alle radici del senso stesso della politica, ovvero il “partecipare”.

Ma la politica si connota di negatività anche quando parteggia per il presente a discapito del futuro; quando, anziché mostrarsi lungimirante, mira all’utile e all’immediato (cfr. Ft, 161). Anche questo, se ci pensiamo, si oppone allo sviluppo organico, reale e popolare, della società. Quale antidoto, si prospetta la prima virtù cardinale, quella della prudenza. Qui una precisazione è doverosa: la virtù della prudenza non esprime la cautela nell’agire, ma la disposizione a prevedere un agire conforme alla finalità da raggiungere e al metodo migliore da perseguire. Comporta, cioè, lungimiranza. Una buona politica supera visioni di corto respiro, concentrate solo sulle esigenze del presente e su prospettive limitate ai piccoli gruppi.

A questo punto, andando sempre più al concreto, un tema sta particolarmente a cuore al Pontefice, quello del lavoro. [Del resto] se la politica, animata dalla carità, è rivolta alla persona e alla concretezza del popolo, la questione che deve starle a cuore, in quanto portatrice di dignità per gli individui e di futuro per un popolo, è quella del diritto al lavoro. Esso rappresenta infatti la via essenziale allo sviluppo.

Per il Pontefice occorre anzitutto sgombrare la tematica dall’insidia del funzionalismo produttivo, che riduce l’essere umano, centro del sistema, a un satellite dello stesso. È sotto gli occhi di tutti che il lavoro oggi esaspera: o manca oppure opprime, soggiogato dall’interesse per il profitto, che arricchisce pochi lasciando nella precarietà molti. Che il tema sia all’ordine del giorno non lo segnala solo il Santo Padre. Richiamo quanto osservato nel rapporto Covid-19 dell’Oxfam, intitolato, non a caso, “La pandemia dei profitti e dei poteri”. Da esso emerge come la forbice tra i pochi che guadagnano molto e le masse che si impoveriscono tende costantemente a dilatarsi. In questo senso il Papa, sensibile a promuovere un modello economico centrato sulla dignità, la sicurezza e i diritti del lavoratore, anziché sull’aumento sregolato del guadagno, afferma che «il mercato da solo non risolve tutto; benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. Si tratta di un pensiero povero, ripetitivo, che propone sempre le stesse ricette di fronte a qualunque sfida si presenti. Il neoliberismo riproduce sé stesso tale e quale, ricorrendo alla magica teoria del “traboccamento” o del “gocciolamento” come unica via per risolvere i problemi sociali. Non ci si accorge che il presunto traboccamento non risolve l’inequità, la quale è fonte di nuove forme di violenza che minacciano il tessuto sociale».

Per una politica che persegua lo sviluppo reale occorre «rimettere la dignità umana al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno» (Ft, 168), anche cominciando da forme concrete di solidarietà, equità e fiducia reciproca. In tal senso è interessante la lettera aperta che a inizio anno tre associazioni di super-milionari hanno indirizzato ai governi chiedendo, sotto il titolo In tax we trust, di pagare più imposte, segnalando di aver aumentato considerevolmente i guadagni durante la pandemia, ma di non aver al contempo versato abbastanza contributi.

Di fronte alla situazione di ingiustizia planetaria, segnalo una riflessione del Papa forse poco ripresa, che radica l’“inequità” in un contesto più profondo di quello socio-politico. Ecco le sue parole: «la mia critica al paradigma tecnocratico non significa che solo cercando di controllare i suoi eccessi potremo stare sicuri, perché il pericolo maggiore non sta nelle cose, nelle realtà materiali, nelle organizzazioni, ma nel modo in cui le persone le utilizzano». Il Papa è attento, in altre parole, a calibrare e ricentrare ogni problematica sul cuore dell’uomo; come a dire che ogni crisi sociale, anche la più spinosa, non è risolvibile con l’eliminazione del problema emergente o con un brusco cambio di paradigma. «La questione — annota il Pontefice — è la fragilità umana, la tendenza umana costante all’egoismo, che fa parte di ciò che la tradizione cristiana chiama “concupiscenza”: l’inclinazione dell’essere umano a chiudersi nell’immanenza del proprio io, del proprio gruppo, dei propri interessi meschini. Questa concupiscenza non è un difetto della nostra epoca. Esiste da che l’uomo è uomo e semplicemente si trasforma, acquisisce diverse modalità nel corso dei secoli, utilizzando gli strumenti che il momento storico mette a sua disposizione. Però è possibile dominarla con l’aiuto di Dio» (Ft, 166). Mi è parso opportuno riportare questa corposa citazione, che segnala l’opportunità di trattare la migliore politica nel contesto dell’uscita dal proprio io... verso la ricerca del tu, del noi, della fraternità universale. Essa... non rappresenta solo un ideale alto e astratto, ma la motivazione concreta per promuovere scelte che correggano i difetti di ogni epoca. La migliore tecnica non basta, occorre la migliore politica, fondata su un genuino senso di umanità: essa sarà tale solo se affronterà il tema della lotta all’egoismo radicale, quell’uscita da se stessi verso gli altri che è pensabile solo nell’orizzonte della fraternità, dell’apertura agli altri e all’Altro, con la maiuscola, con l’aiuto del Quale, osserva il Santo Padre, è possibile vincere la tirannia della concupiscenza.

Tutto questo discorso, incentrato sulla migliore politica si scontra, tuttavia, con un dato di fatto inoppugnabile: «la dimensione economico-finanziaria, con caratteri transnazionali, tende a predominare sulla politica» (Ft, 172). «La crisi finanziaria del 2007-2008 — osserva amaramente il Pontefice — era l’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale. Ma non c’è stata una reazione che abbia portato a ripensare i criteri obsoleti che continuano a governare il mondo» (Ft, 170). Che cosa fare allora? Per Francesco è «indispensabile lo sviluppo di istituzioni internazionali più forti ed efficacemente organizzate, con autorità designate in maniera imparziale mediante accordi tra i governi nazionali e dotate del potere di sanzionare». Una qualche autorità che — specifica Francesco — «dovrebbe almeno prevedere il dare vita a organizzazioni mondiali più efficaci, dotate di autorità per assicurare il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e della miseria e la difesa certa dei diritti umani fondamentali» (Ft, 172).

A questo proposito Fratelli tutti richiama il tema della riforma dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e dell’architettura economica e finanziaria internazionale: senza questo, i concetti di famiglia delle Nazioni o di comunità internazionale rischiano di rimanere vuoti. È necessario, suggerisce il Papa, porre «limiti giuridici precisi» per evitare che solo determinati Paesi guidino le sorti di tutti gli altri. Egli si riferisce in tal senso alla Carta delle Nazioni Unite, definita «vera norma giuridica fondamentale», per «assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato» (Ft, 173).

Tra gli obiettivi «principali e irrinunciabili» che la politica internazionale non può tralasciare c’è l’eliminazione della fame: «quando la speculazione finanziaria condiziona il prezzo degli alimenti trattandoli come una merce qualsiasi, milioni di persone soffrono e muoiono di fame. Dall’altra parte si scartano tonnellate di alimenti. Ciò costituisce un vero scandalo. La fame è criminale, l’alimentazione è un diritto inalienabile (Ft, 189). La proposta culminante dell’enciclica è quella di intraprendere processi volti a convertire le armi in cibo: «con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa» (Ft, 262). Nel testo il Papa menziona la profezia di Isaia: «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri» (2, 4). L’ha commentata in diverse occasioni, sempre in modo sofferto, in quanto non solo tale profezia non si è minimamente realizzata, ma anzi le spade sono diventate fucili e le lance missili.

Nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace dell’anno precedente all’enciclica, non a caso intitolato «La buona politica è al servizio della pace», Francesco ricordava che «la pace non può mai ridursi al solo equilibrio delle forze e della paura. Tenere l’altro sotto minaccia vuol dire ridurlo allo stato di oggetto e negarne la dignità. È la ragione per la quale riaffermiamo che l’escalation  in termini di intimidazione, così come la proliferazione incontrollata delle armi sono contrarie alla morale e alla ricerca di una vera concordia». In Fratelli tutti si ribadisce che la pace che non è solo assenza di guerra, ma frutto della giustizia (cfr. n. 233). Senza giustizia, non si promuove e non si preserva. Perché la pace, così come la guerra, viene da lontano.

L’appello del Papa a convertire gli strumenti di distruzione in opportunità di costruzione oggi soprattutto sembra utopico. Eppure, emerge sempre più come la retorica bellica, l’urgenza per l’immediato, la mancanza di prospettive a lungo termine e la dimenticanza del passato siano consiglieri nocivi, contrari alla buona politica. Non manca per altro chi, grazie a Dio, ha proposto di accogliere l’invito del Santo Padre. Menziono due esempi. Anzitutto quanto rilasciato in un’intervista dal vicedirettore del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite: «il Wfp-Pam è con Papa Francesco quando dice che “nessuno deve essere lasciato indietro” e chiede di combattere sprechi e ineguaglianze, creando un Fondo mondiale per eliminare la fame con i soldi impiegati per le armi. “Una piccola percentuale di spese” come quelle militari, utilizzate “per ridurre la sofferenza dei più vulnerabili” concorda il vicedirettore Juneja “potrebbe portarci all’obiettivo ‘Fame zero’” (fissato dall’Onu per il 2030)». In secondo luogo, cinquanta Premi Nobel hanno pubblicamente invitato i governi a negoziare un accordo  globale  per la riduzione bilanciata delle spese militari del 2% all’anno per cinque anni, al fine di convertire il ricavato in un fondo globale da utilizzare per emergenze sanitarie, strutturali e ambientali.

Il capitolo v di Fratelli tutti si conclude, in tal senso, ritornando al tema della carità, dell’amore sociale e dei sacrifici che esso richiede. Conscio che non è da attendersi un cambio strutturale del paradigma politico-economico, il Papa invita ogni politico a un fattivo impegno personale, senza aspettare che siano altri a cominciare. Egli termina sottoponendo al lettore, impegnato in politica, una sorta di “esame di coscienza”. Condivido questi interrogativi finali, con l’auspicio che possano suscitare un’accoglienza non solo formale ma anche fattiva di quanto il Santo Padre ha voluto accoratamente condividere: «Quanto amore ho messo nel mio lavoro? In che cosa ho fatto progredire il popolo? Che impronta ho lasciato nella vita della società? Quali legami reali ho costruito? Quali forze positive ho liberato? Quanta pace sociale ho seminato? Che cosa ho prodotto nel posto che mi è stato affidato?» (Ft, 197).

 

Un esempio concreto

Diamo di seguito il testo del saluto iniziale degli organizzatori, letto di fronte agli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede che hanno partecipato all’incontro con il sostituto.

San Giovanni Paolo II nel suo libro Dio e Mistero così scrive: «il Rettore del seminario di Cracovia mi aveva più volte ripetuto che per chi ha la fortuna di potersi formare nella capitale del cristianesimo, più ancora degli studi (un dottorato in teologia si può conseguire anche altrove!) importante è imparare Roma».

Non “imparare in Roma” ma imparare Roma stessa, poiché Roma è un grande libro di fede religiosa e di cultura, dal quale si può apprendere tanto di una storia che lega insieme il passato, il presente ed il futuro. 

Con la sua singolare dimensione mondiale, Roma ha un fascino ed una espressività del tutto speciale. Tutto questo crea un clima favorevole a riflessioni più serene e profonde, a discussioni costruttive a vincoli di amicizia sinceri. 

Da sempre, un tema ricorrente nei nostri incontri è proprio “Imparare Roma” che ha particolarmente impressionato i vari Ambasciatori che si sono susseguiti presso la Santa Sede. 

L’esperienza accumulata negli anni ci ha incoraggiato nella costituzione della “Comunità degli Ambasciatori in Roma”, che in virtù del decreto del Governo italiano con cui l’Associazione Internazionale Carità Politica è anche eretta in Ente morale, può accogliere gli Ambasciatori dei 4 Corpi diplomatici presenti a Roma. 

Non è dunque casuale lo stretto collegamento esistente tra Fratelli tutti e la costituzione di questa Comunità, luogo di speciale presenza dei diplomatici e delle loro preoccupazioni e speranze.