«Kiev» di Nello Scavo, diario da una città in guerra

Dalla pace all’inferno in una notte

Workers dismantle the Soviet monument to Ukraine-Russia friendship in Kyiv on April 26, 2022, amid ...
27 aprile 2022

In che cosa consiste il fiuto del cronista? Nel saper scovare informazioni essenziali anche nei dettagli, nel dare un contesto a ciò che in apparenza può sembrare poco significativo. Nello Scavo, inviato speciale di «Avvenire», che, a dispetto dell’età, di guerre ne ha già raccontate tante nella sua lunga carriera, vola a Kiev il 21 febbraio. L’idea è quella di andare nel Donbass. È lì che da un momento all’altro tutti si aspettano l’attacco russo all’Ucraina, nonostante Mosca dica di non avere nessuna intenzione di farlo. Ma quello stesso giorno un colloquio con un ambasciatore gli fa cambiare idea. «Fino a una settimana fa — gli dice il diplomatico — escludevo che la guerra potesse arrivare fino a Kiev. Non ci sono ragioni geopolitiche né economiche che possano giustificare l’assedio della capitale. Ed è quello che ho scritto in tutti i report ai miei superiori. Fino a ieri». «Perché fino a ieri?» chiede il cronista. «Perché — è la risposta — ho visto Putin parlare alla televisione. Lo conosco. L’ho incontrato molte volte. E quello sguardo dice qualcosa. Ha i modi di una persona paranoica». Basta questa affermazione, detta da un diplomatico di lungo corso, a spingere Scavo a restare a Kiev. Tre giorni dopo l’“operazione militare speciale” di Putin non risparmierà la capitale.

A riferire l’episodio è lo stesso cronista in Kiev (Milano, Garzanti, 2022, pagine 157, euro 15), il libro scritto appena rientrato in Italia dal primo viaggio in Ucraina, un diario sul campo, dettagliato e intenso, dei giorni che hanno riportato la guerra nel cuore dell’Europa. Una guerra che lo coglie quindi non impreparato in una città che non avrebbe mai pensato di precipitare nel peggiore degli incubi nel giro di poche ore. La sera del 23 il cronista, che nella hall dell’albergo in cui soggiorna insieme ad altri colleghi si sente come un avventore nella sala concerti del Titanic, appunta: «Sappiamo che sta succedendo. Sappiamo che sarà diverso dalle altre volte. Non ci saranno scaramucce d’avvertimento. Sarà subito guerra. E non possiamo fare altro che attendere, magari dormire un po’. Forse stanotte, forse la prossima. Non ci sarà spazio per le nostre emozioni e per le nostre paure. Quelle non interessano a nessuno, quando scrivi un reportage. È solo questione di ore. Dovremo raccontare l’assedio».

Ed è un racconto devastante quanto le bombe e i missili che da quella stessa notte cominceranno a colpire incessantemente la capitale ucraina. Le esplosioni le sentono tutti distintamente. Le prime righe inviate al giornale sono secche, quasi scarne, frutto di una notte quasi insonne. «Rilette adesso — scrive Scavo — mi sembrano di imperdonabile freddezza. In realtà nascondono una paura vera, un’angoscia egoistica per essere finito in mezzo a qualcosa di troppo grande, un evento di magnitudo tale da lasciarmi stordito, perché non esistono parole giuste per raccontare una guerra. Ma di certo esiste il modo migliore: in presa diretta».

La parola assedio richiama subito il nome di un’altra capitale europea, Sarajevo, che «è l’incubo di ogni giornalista — scrive Scavo, che in quella città c’è stato nei giorni più bui — uno spettro che si aggira a ogni conflitto. I cecchini nascosti nei palazzi. Le granate lanciate contro i mercati rionali. I massacri strada per strada. Gli stupri. I reporter che a casa torneranno solo per l’estremo saluto». Ebbene, tutti temono che Kiev si trasformi in un’altra Sarajevo, perché «non è Grozny, Putin non può permettersi di raderla al suolo come avvenuto con la capitale cecena e con le altre repubbliche ribelli»: la capitale è il trofeo più ambito, il sigillo definitivo di una guerra che Mosca immagina di vincere in una manciata di giorni, senza però aver messo in conto la tenace e caparbia resistenza degli ucraini.

In poche ore la città cambia volto. Le vie eleganti, i locali alla moda sembrano di un’altra epoca. Kiev, annota Scavo, si trasforma in «una città spettrale, silenziosa, senza quasi nessuno per le strade. Chi non è riuscito a fuggire è rintanato negli scantinati, nei sottopassi della metropolitana, nei garage trasformati in rifugi antiaerei». Ed è in questa città spettrale che il cronista racconta le conseguenze dei bombardamenti, la paura degli abitanti che hanno deciso di rimanere, così come la forza di volontà e il coraggio di chi ha preso le armi per difenderla affiancandosi ai soldati. E, sottolinea Scavo, «si rischia una carneficina d’altri tempi. Vecchi fucili contro i cingolati. Bottiglie incendiarie contro blindati». Tanto che la domanda è: «Kiev si prepara a morire nel silenzio o a perire combattendo?». Ma per chi è deciso a difendere la propria libertà la risposta è scontata. Basta leggere le testimonianze e le storie riportate nel libro. Come quella di Yarina e Sviatolasv, che si sono sposati il giorno della dichiarazione di guerra di Mosca, anticipando la data di due mesi. Niente luna di miele per loro, ma arruolamento nelle milizie civili volontarie: «Insieme alle fedi hanno ricevuto due fucili».

Sebbene vista da dentro la guerra non fornisca una visione ampia di ciò che accade — il puzzle verrà ricomposto solo in seguito — la penna dell’esperto cronista, grazie anche al gran numero di informazioni che giungono attraverso molteplici canali, appunta tutto. E filtra le notizie vere dalla propaganda, che non manca da ambo le parti, senza però mai dimenticare che si è di fronte a un aggressore e a un aggredito, e che il primo nei fatti sta dimostrando — come del resto era già accaduto in altre circostanze, dalla Cecenia alla Siria — una ferocia sfociata più volte in barbarie, come a Bucha, forse per la frustrazione di non aver conseguito sul campo gli obiettivi prefissati.

Proprio questa consapevolezza rende il racconto di Scavo denso di compassione; una partecipazione comprensibile quando è chiaro chi è dalla parte giusta della storia. «Non potevo immaginare — confessa — che il dolore di tutte le guerre, che le lacrime di ogni vedova, che il pianto di ogni orfano incontrato in questi anni si ammassassero all’improvviso, in un solo sordo colpo, proprio qui, alle 4:50 del mattino. Nella città dove tutto è azzurro e oro».

E lui, tra i più apprezzati e premiati reporter italiani, che di guerre ne ha raccontate diverse in trent’anni, dai Balcani alla Siria, oggi afferma con certezza che «Kiev è un’altra storia». Non si era mai trovato sul posto prima che un conflitto scoppiasse, scaraventato «dalla pace all’inferno nel volgere di un fulmine scagliato in piena notte». «Adesso so — annota una volta rientrato a casa ma già pronto a tornare — di quale materia è fatta l’illusione della quiete che precede la tempesta. Adesso so cosa vuol dire “dormi sepolto in un campo di grano”».

Kiev non è, quindi, solo il diario dell’inizio di una guerra, dalla dichiarazione dello stato di emergenza alle bombe sui palazzi. È il racconto della resistenza di un popolo a un’aggressione ingiustificata e ingiustificabile, così come della fuga di milioni di persone, soprattutto donne e bambini, in cerca di salvezza; è un approfondimento delle conseguenze politiche ed economiche del conflitto, nonché delle ragioni ideologiche che la sostengono. Ma è soprattutto la testimonianza, sul campo, di un giornalista che non dimentica mai i drammi umani che si celano nei fatti che racconta. Anzi, ne sono il fulcro. Perché prima di tutto ci sono le persone che in guerra soffrono. E quello che resta, oltre alle macerie, sono le loro storie. «E le storie — chiosa Nello Scavo — non ti abbandonano mai».

di Gaetano Vallini