Mondo, giornalista e scrittore, è morto a Torino a 91 anni

Pavese fermo sulla soglia
di Cristo

 Pavese fermo sulla soglia di Cristo  QUO-090
20 aprile 2022

Ho conosciuto Lorenzo Mondo nella primavera del 2001 quando organizzai una giornata di studi su letteratura e cattolicesimo nel Novecento per conto del Pontificio Consiglio della Cultura e pensai di invitarlo a parlare di Cesare Pavese. Era un autore “suo”, così come Fenoglio e cercavo una voce autorevole su questa grande, drammatica figura del Novecento italiano. Venne a Roma insieme agli altri relatori per l’evento che si svolse presso la Casa delle Letteratura il 28 marzo alla presenza del cardinale Poupard e mi colpì per l’eleganza dei modi, la finezza del pensiero, la passione più che per la letteratura direi proprio per la persona di Pavese. Un gentleman raffinato e discreto per nulla “seduto sulla cattedra” di una fama e di una competenza per altro inoppugnabili. È con grande piacere, con un senso di gratitudine a distanza di più di 20 anni, che pubblichiamo ampi stralci di quell’intervento che poi fu raccolto insieme alle altre relazioni nel volume degli atti curato e pubblicato dalla Rivista «Communio» partner insieme al Pontificio Consiglio dell’organizzazione dell’evento.

di Andrea Monda


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Dopo l’8 settembre 1943, data di proclamazione dell’armistizio, Cesare Pavese lascia Torino e si rifugia a Serralunga di Crea, in Monferrato. (...) È un Pavese inconsueto che si afferma, insospettato anche dagli amici più stretti, e questo dà la misura tra l’altro della sua solitudine.

C’è intanto l’episodio del taccuino 1942-43, rimasto inedito e pubblicato postumo, con grande stupore e scandalo. Pavese appare stranamente sensibile all’idea di patria, ripone qualche speranza nella Repubblica sociale Italiana e, davanti allo sfascio dell’Italia, professa ammirazione per la disciplina della Germania (con torbide concessioni al culto pagano della terra e del sangue). Lo sviamento, che dura fino al dicembre del ’43, viene superato sulla spinta di nuove, più acute preoccupazioni. Lo scrittore (...) ha trovato lavoro nella vicina Casale: come ripetitore e assistente di studio nel Collegio Trevisio, tenuto dai Padri Somaschi.

E in quell’ambiente che matura in lui una crisi religiosa e si accosta al cristianesimo. Un giovane religioso, padre Giovanni Baravalle, racconterà di averlo confessato e comunicato il 1 febbraio del 1944. Il diario offre numerosi riscontri, a partire da una nota del 29 gennaio 1944: «Ci si umilia nel chiedere una grazia e si scopre l’intima dolcezza del regno di Dio. Quasi si dimentica ciò che si chiedeva: si vorrebbe soltanto goder sempre questo sgorgo di divinità. E questa senza dubbio la mia strada per giungere alla fede, il mio modo di esser fedele. Una rinuncia a tutto, una sommersione in un mare d’amore, un mancamento al barlume di questa possibilità. Forse è tutto qui: in questo tremito del “se fosse vero! Se davvero fosse vero...’’».

E una svolta nel suo atteggiamento verso il cristianesimo. Fino ad ora ha mostrato di apprezzarlo come dottrina di vita, come fondamento di una norma etica (....). Ma la sua «strada» verso la fede non sa prescindere dal percorso culturale e stilistico. Si applica coscienziosamente a libri di carattere religioso e teologico (Romano Guardini, Peter Wust, Alphonse Gratry), si prova ad allineare, in base alla lettura della Bibbia e dei suoi esegeti, le «prove certe», in realtà datate, dell’esistenza di Dio.

Ma ciò che conta è lo «sgorgo di divinità», la sublimazione dell’atteggiamento estatico che prova da sempre nei confronti della natura, del richiamo folgorante che esercita su di lui la memoria dell’infanzia. «La ricca e simbolica realtà dietro cui ne sta un’altra, vera e sublime, è altro dal cristianesimo? Accettarlo vuol dire alla lettera entrare nel mondo del soprannaturale» (1 febbraio 1944).

D’altra parte non cessa di indagare (...) la consistenza del mito, dei modelli esemplari che si trovano nella cultura greca, nella «sapienza» presocratica. Il mito è all’origine dell’umanità come l’infanzia è all’origine dell’individuo e rappresentano entrambi una riserva inesauribile dello spirito. L’analogia tra preistoria e infanzia, tra questi due momenti aurorali, sembra tuttavia incrinarsi alla considerazione che il primitivo si accompagna sempre al selvaggio, allo scatenamento di sesso e violenza. Italo Calvino ha segnalato nelle concezioni di Pavese l’affioramento vago di una anamnesi platonica, che di per sé non sarebbe avversa al cristianesimo ,ma che mal si concilia con l’idea di un uomo intrinsecamente corrotto. Mancherà sempre a Pavese il senso di una natura caduta e, in quanto tale, capace di riscattarsi; la distinzione che restava in Leopardi, tra il primitivo e il selvaggio, quest’ultimo destituito della originaria innocenza.

Resta il fatto che, mentre insegue affannosamente le metafore del sacro, Pavese ammette, all’aprirsi del 1945, di avere vissuto una «annata strana, ricca. Cominciata e finita con Dio»; «il semplice sospetto che il subcosciente sia Dio, che Dio viva e parli nel nostro subcosciente ti ha esaltato». Non si tratta, di necessità, del Dio cristiano. La divaricazione è suggerita dallo stesso Pavese quando (siamo ai primi del ’46) scrive: «Certo il mito è una scoperta di Crea, dei due inverni e dell’estate di Crea. Quel monte ne è tutto impregnato».

Non si riferisce dunque al santuario cristiano (...) ma al bosco che viene prima e le annuncia, quello che rappresenta un percorso iniziatico ai Dialoghi con Leucò Cristo sembra svanire dietro le sembianze di Dioniso (...). Perché i Dialoghi, il libro più amato da Pavese si definisce pur sempre un «colloquio tra l’umano e il divino», manifesta un’ansia di sacralità che resiste alle forti contestazioni storicistiche e illuministiche. È là che un personaggio esperto di generazioni divine come Esiodo ammonisce: «Ogni gesto che fate ripete un modello divino. Giorno e notte, non avete un istante, nemmeno il più futile, che non sgorghi dal silenzio delle origini».

E sono gli stessi Dialoghi che si concludono con questa ambigua, riluttante affermazione di sconfitta: «Credo in ciò che ogni uomo ha sperato e patito. Se un tempo salirono su queste alture di sassi o cercarono paludi mortali sotto il cielo, fu perché ci trovavano qualcosa che non sappiamo. Non era il pane né il piacere né la cara salute. Queste cose si sa dove stanno. Non qui. E noi che viviamo lontano lungo il mare o nei campi, l’altra cosa l’abbiamo perduta». L’altra cosa cui allude Mnemòsine, la memoria, con un brivido di nostalgia è l’incontro con gli dei.

Ma Pavese, in quel di Casale, oltre a padre Baravalle ha conosciuto un altro, eccentrico personaggio. Carlo Grillo appartiene a una vetusta nobiltà di provincia. E anche lui, a suo modo, un fuggiasco. Ha combattuto come aviatore nei cieli di Malta, è tornato a casa minato nel fisico e nel morale. Prende cocaina in dosi massicce. (...) è in rotta con il suo mondo. Pavese lo incontra, forse ai primi del 1945, sul piazzale del santuario di Crea. È incuriosito dalle sue elucubrazioni sulla droga come fonte di conoscenza, sulle «profondità tragiche e misteriose della mente» che si possono raggiungere con la polvere bianca. Parla di Dio, di libertà e destino. (...) Del conte Grillo si ricorderà facendone il personaggio di Poli, il debosciato, infelice «rentier» del Diavolo sulle colline. Per qualche tempo, dopo il ritorno di Pavese a Torino, alla casa editrice Einaudi, si scrivono. Il conte Grillo continua a battere, confusamente, sul tasto religioso. Pavese reagisce con un bonario scettico distacco: «Quando mi racconterà per quali strade è giunto a Damasco? Io resto incorreggibile, sebbene parecchi Sinistri cristiani facciano di tutto per salvarmi».

Allude certamente al filosofo Felice Balbo, alla stessa Natalia Ginzburg, al piccolo gruppo di comunisti cristiani annidati nella casa Einaudi.

Siamo nel 1946, e sembrano allontanati i giorni di Canale (...). Che rispuntano, con intonazione patetica in una pagina del Mestiere di vivere, due anni dopo: «Perché quando riesci a scrivere di Dio, della gioia disperata di quella sera di dicembre al Trevisio, ti senti sorpreso e felice come chi giunge in un paese nuovo? (oggi, pagina del capitolo xv della Collina)». Pavese sta scrivendo uno dei suoi romanzi più significativi, La casa in collina, appunto. E nel capitolo accennato il prof. Corrado, alter ego dello scrittore, trova un bel sollievo alla guerra, al sangue versato, alla propria inadeguatezza e viltà, entrando in una chiesa. Sente una beatitudine inattesa, un trasalimento, uno «sgorgo di gioia» (...). Così, il successivo riparo nel Convento di Chieri si rispecchia nel Collegio Trevisio, mentre la figura di padre Felice è esemplata su quella di padre Baravalle. Corrado, ripensando al suo «incontro» con Dio «cova un tumulto terribile», riprova a pregare, scopre nella liturgia cattolica i ritmi delle care stagioni, il battito di una natura perenne. Il pericolo incalza, bisogna lasciare il Convento, cercare una dubbia pace sulle colline materne. Con un parallelo allontanamento delle suggestioni cristiane. Il viaggio è segnato non a caso da profili di chiese e cappelle che svaniscono sui crinali (...).

Ritorneranno, a intervalli, le sensazioni di un tempo. Siamo ormai al dicembre 1949 quando scrive: «Quel senso dell’inverno ’44 (dicembre), quel raccogliersi in una stanza, tra l’odore della cucina e la finestra appannata davanti ai colli nevosi, quei ritorni dalle colline pregustando la pace tiepida tornerà ancora? Né mancavano i pensieri di tranquilla lettura spirituale, la speranza di una pace suprema (...)». Ma la rimembranza era stata preceduta da una ben più esplicita ammissione. Pavese è in corrispondenza di lavoro con Rosa Calzecchi Onesti, la accompagna e sostiene nella sua traduzione dell’Iliade. La Calzecchi ha letto Prima che il gallo canti (il dittico pavesiano che contiene La casa in collina), vi ha intravisto un tormento religioso. Pavese risponde: «Quanto alla soluzione che mi augura di trovare, io credo che difficilmente andrò oltre al capitolo iv del “Gallo”. Comunque, non si è sbagliata sentendo che qui è il punto infiammato, il locus di tutta la mia coscienza» (14 giugno 1949).

Il disagio religioso, trascurato dalla critica a vantaggio di aspetti più laterali, è una delle componenti essenziali della sua opera. E il cristianesimo scavalcato all’indietro o storicizzato al pari degli altri «miti» (ma la tensione resterà fino all’ultimo irrisolta) sarà sempre presente in lui come una trafittura (.... ).

Ma nel diario, al 18 agosto 1950, il congedo diventa un grido strozzato: «Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi?». Il resto è silenzio.

di Lorenzo Mondo