Tutti figli Tutti fratelli

Renat (L), Sofia (C) and their grandmother Halina, members of a family from Kharkiv, are seen as ...
11 aprile 2022

La famiglia, dunque. La Settimana Santa quest’anno mette al centro questo “oggetto” diventato ormai misterioso. Nelle pagine dedicate al «Primo piano» di oggi il lettore trova il testo delle meditazioni scritte da diverse famiglie (e da famiglie diverse) a commento delle quattordici stazioni del rito della Via Crucis che si celebrerà venerdì alla presenza del Santo Padre al Colosseo. Sono tante le voci che compongono questo mosaico (ma il quadro non è esaustivo, non potrebbe esserlo) e troviamo in queste parole molte sfumature della gamma delle emozioni e dei sentimenti umani, dal grido di dolore all’espressione della gioia, dalla paura alla fiducia, dalla gratitudine all’angoscia. Sono voci che si alzano in quanto colpite, pro-vocate, dalla scena della passione di Cristo: il Figlio dell’uomo che, giovane e innocente, muore in modo atroce e sembra abbandonato da Dio ma non dalla madre che sta lì, sotto la croce, silente, orante, morente insieme a Lui.

Il fatto è che ogni essere umano, anche se solo, è già famiglia. In lui vivono i suoi genitori, i suoi nonni, e la sua vita è sostenuta dall’affetto, dallo sguardo d’amore che altri gli rivolgono. Questo sostegno, questa forza può essere preclusa, tenuta fuori, la relazione si può spezzare, anche a causa del proprio orgoglio. Il marito che parla meditando sulla settima stazione, un marito che vive la condizione di avere una moglie gravemente ammalata, ci ricorda che: «Essere bloccati, inchiodati da un pensiero martellante costringe soprattutto me, che ero così cocciutamente orgoglioso, a scoprire nelle altre famiglie il meraviglioso dono che sono». L’orgoglio può chiuderci in noi stessi, così come la paura. I giovani sposi che commentano la prima stazione sono felici di essere famiglia, «eppure spesso abbiamo paura [..] Quando ci sentiamo soli perché non ci capiamo Quando ci ritroviamo, sconosciuti, sotto uno stesso tetto. Quando ci svegliamo di notte e sentiamo nel cuore il peso e l’angoscia della nostra “orfananza”. Perché ci dimentichiamo di essere figli. Perché crediamo che il nostro matrimonio e la nostra famiglia dipenda solo da noi, dalle nostre forze. Ci stiamo rendendo conto che il matrimonio non è solo un’avventura romantica, ma è anche Getsemani, è anche l’angoscia prima di spezzare il tuo corpo per l’altro». L’essere figli, che è la condizione universale che accomuna ogni essere umano, può essere dimenticato. E invece non solo ogni uomo anche da solo è già famiglia, ma è pure vero che tutti gli uomini compongono la grande famiglia umana. Siamo tutti figli, siamo tutti fratelli. E anche questo finiamo spesso per dimenticarcelo. I genitori che meditano sulla sesta stazione, gestori di una casa famiglia, dicono che non meritano «tanta benedizione di vita. Per chi crede che non sia umano lasciare solo chi soffre, lo Spirito Santo muove nell’intimo la volontà ad agire e a non rimanere indifferenti, estranei. Il dolore ci ha cambiato. Il dolore riporta all’essenziale, ordina le priorità della vita e restituisce la semplicità della dignità umana, in quanto tale. Sulla via dolorosa della vita di tanti flagellati e crocifissi, accanto a loro, sotto il peso della loro croce, abbiamo scoperto che il vero re è colui che si dona e si dà in pasto, anima e corpo».

Figli tutti, fratelli tutti. Le ultime due meditazioni da questo punto di vista suonano come due schiaffi che scuotono e bruciano; la prima proviene da due famiglie, una russa e una ucraina e insieme confidano il loro smarrimento: «Sappiamo che Tu ci ami, Signore, ma non lo sentiamo questo amore e questa cosa ci fa impazzire. Ci svegliamo al mattino e per qualche secondo siamo felici, ma poi ci ricordiamo subito quanto sarà difficile riconciliarci. Signore dove sei? Parla nel silenzio della morte e della divisione ed insegnaci a fare pace, ad essere fratelli e sorelle, a ricostruire ciò che le bombe avrebbero voluto annientare». La seconda arriva dal drammatico mondo delle migrazioni e ci ricorda un’altra cosa che tendiamo a dimenticare, rimuovere: «Noi che a casa nostra eravamo importanti, qui siamo numeri, categorie, semplificazioni. Eppure siamo molto di più che immigrati. Siamo persone. Siamo venuti qui per i nostri figli. Moriamo ogni giorno per loro, perché qui possano provare a vivere una vita normale, senza le bombe, senza il sangue, senza le persecuzioni».

Viviamo e moriamo per i nostri figli, per il nostro futuro, c’è qualcosa che ci lega, tra noi contemporanei nello spazio e tra noi e chi ci ha preceduto e verrà dopo di noi, nel tempo. Per i cristiani, che credono nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, c’è un punto, un momento che unifica tutta l’umanità di ogni tempo; è l’evento pasquale. Lo scandalo abissale della croce è cioè unisce tutto e tutti, che lega insieme i due bracci della croce, quello verticale verso Dio e quello orizzontale, verso gli altri. Lo dice efficacemente il grido dei genitori che hanno perso una figlia e, meditando su Gesù morto in croce, affermano che «la ferita di Uno sulla croce è eredità, legame e relazione insieme. L’Amore si fa reale, perché, nel nostro abisso e nei nostri disagi, non siamo abbandonati».

di Andrea Monda