La via della pace è il perdono

epaselect epa09861945 Relatives react during the funeral ceremony of Ukrainian servicemen who died ...
11 aprile 2022

«Molte volte mi sono soffermato a riflettere sulla domanda: qual è la via che porta al pieno ristabilimento dell’ordine morale e sociale così barbaramente violato? La convinzione, a cui sono giunto ragionando e confrontandomi con la Rivelazione biblica, è che non si ristabilisce appieno l’ordine infranto, se non coniugando fra loro giustizia e perdono. I pilastri della vera pace sono la giustizia e quella particolare forma dell’amore che è il perdono». Queste precise parole non sono state pronunciate da Papa Francesco in questi giorni ma da un altro Pontefice, san Giovanni Paolo ii ben venti anni fa, in occasione del Messaggio per la Giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2002. La precisazione è necessaria perché in effetti si potrebbe facilmente cadere nell’errore di confondere l’autore di queste parole che suonarono potenti allora: quel messaggio fu pubblicato all’indomani della tragedia delle Torri Gemelle, e si rivelano valide ancora oggi, in questi giorni terribili dell’invasione dell’Ucraina. Scritto e divulgato poco dopo gli attentati all’America, quando lo sconcerto e il terrore per quell’attacco rendeva ancora più forti, coraggiose e paradossali le parole sul perdono quel Messaggio aveva un titolo che in sé dice già tutto: Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono. Tutto il testo dovrebbe essere ripreso e riletto, non solo dal popolo dei fedeli cattolici, ma anche dalle autorità politiche e da chi può collaborare a cercare e trovare una via per la pace.  

«Ma come parlare, nelle circostanze attuali, di giustizia e insieme di perdono quali fonti e condizioni della pace?» si chiedeva il Papa polacco venti anni fa e si rispondeva che «si può e si deve parlarne, nonostante la difficoltà che questo discorso comporta, anche perché si tende a pensare alla giustizia e al perdono in termini alternativi. Ma il perdono si oppone al rancore e alla vendetta, non alla giustizia». Del rancore ha parlato ieri Papa Francesco nell’omelia per la Domenica delle Palme, riflettendo sul mistero di Gesù crocifisso che perdona i suoi aguzzini: «mentre viene crocifisso, nel momento più difficile, Gesù vive il suo comandamento più difficile: l’amore per i nemici. Pensiamo a qualcuno che ci ha ferito, offeso, deluso; a qualcuno che ci ha fatto arrabbiare, che non ci ha compresi o non è stato di buon esempio. Quanto tempo ci soffermiamo a ripensare a chi ci ha fatto del male! Così come a guardarci dentro e a leccarci le ferite che ci hanno inferto gli altri, la vita, o la storia. Gesù oggi ci insegna a non restare lì, ma a reagire. A spezzare il circolo vizioso del male e del rimpianto. A reagire ai chiodi della vita con l’amore, ai colpi dell’odio con la carezza del perdono. Ma noi, discepoli di Gesù, seguiamo il Maestro o il nostro istinto rancoroso?»

Il perdono è infatti innanzitutto un fatto personale, lo riconosceva anche il Messaggio del 2002: «il perdono ha la sua sede nel cuore di ciascuno, prima di essere un fatto sociale», ma, e questo è un passaggio fondamentale: «La persona, tuttavia, ha un’essenziale dimensione sociale, in virtù della quale intreccia una rete di rapporti in cui esprime se stessa: non solo nel bene, purtroppo, ma anche nel male. Conseguenza di ciò è che il perdono si rende  necessario anche a livello sociale. Le famiglie, i gruppi, gli Stati, la stessa Comunità internazionale, hanno bisogno di aprirsi al perdono per ritessere legami interrotti, per superare situazioni di sterile condanna mutua, per vincere la tentazione di escludere gli altri non concedendo loro possibilità di appello.  La capacità di perdono sta alla base di ogni progetto di una società futura più giusta e solidale. Il perdono mancato, al contrario, specialmente quando alimenta la continuazione di conflitti, ha costi enormi per lo sviluppo dei popoli. Le risorse vengono impiegate per sostenere la corsa agli armamenti, le spese delle guerre, le conseguenze delle ritorsioni economiche. Vengono così a mancare le disponibilità finanziarie necessarie per produrre sviluppo, pace, giustizia. Quanti dolori soffre l’umanità per non sapersi riconciliare, quali ritardi subisce per non saper perdonare!  La pace è la condizione dello sviluppo, ma una vera pace è resa possibile soltanto dal perdono». Urge quindi alzare il livello del perdono da quello personale ad una vera e propria “politica del perdono”: «Solo nella misura in cui si affermano un’etica e una cultura del perdono, si può anche sperare in una “politica del perdono”, espressa in atteggiamenti sociali ed istituti giuridici, nei quali la stessa giustizia assuma un volto più umano». Così Giovanni Paolo ii ieri, e così oggi Francesco che allarga il discorso del perdono dai rapporti personali al mondo, paragonato ad un grande Golgota dove si compie l’acme del mysterium iniquitatis ma anche il trionfo della misericordia: «Quando si usa violenza non si sa più nulla su Dio, che è Padre, e nemmeno sugli altri, che sono fratelli. Si dimentica perché si sta al mondo e si arriva a compiere crudeltà assurde. Lo vediamo nella follia della guerra, dove si torna a crocifiggere Cristo. Sì, Cristo è ancora una volta inchiodato alla croce nelle madri che piangono la morte ingiusta dei mariti e dei figli. È crocifisso nei profughi che fuggono dalle bombe con i bambini in braccio. È crocifisso negli anziani lasciati soli a morire, nei giovani privati di futuro, nei soldati mandati a uccidere i loro fratelli. Cristo è crocifisso lì oggi».

In questo conflitto, come in quegli atti terroristici di venti anni fa, è prevalsa la logica del combattere il fratello che non è più visto come essere umano ma come appartenente al cosiddetto “asse del male”, una logica che fa salire di livello l’intensità dello scontro, che diventa quasi “metafisico” e quindi “sacro”. Bisogna spezzare sul nascere questa tentazione. Per farlo la via della pace vista solo come riassetto di un equilibrio spezzato può rivelarsi insufficiente. C’è bisogno di un “di più”, che solo il perdono può rendere possibile. Le parole del Messaggio del 2002 ancora una volta esprimono in modo chiaro questo aspetto decisivo allora come ora: «La vera pace, pertanto, è frutto della giustizia, virtù morale e garanzia legale che vigila sul pieno rispetto di diritti e doveri e sull’equa distribuzione di benefici e oneri. Ma poiché la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta, esposta com’è ai limiti e agli egoismi personali e di gruppo, essa va esercitata e in certo senso completata con il perdono che risana le ferite e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati. Ciò vale tanto nelle tensioni che coinvolgono i singoli quanto in quelle di portata più generale ed anche internazionale. Il perdono non si contrappone in alcun modo alla giustizia, perché non consiste nel soprassedere alle legittime esigenze di riparazione dell’ordine leso. Il perdono mira piuttosto a quella pienezza di giustizia che conduce alla tranquillità dell’ordine, la quale è ben più che una fragile e temporanea cessazione delle ostilità, ma è risanamento in profondità delle ferite che sanguinano negli animi. Per un tale risanamento la giustizia e il perdono sono ambedue essenziali».

Le parole dei pontefici e della Chiesa, che ci ricordano quelle di Gesù sulla croce, possano illuminare le menti dei governati e dei popoli, di tutti i popoli, ancora una volta radunati e smarriti su quella collina alle porte di Gerusalemme. (andrea monda)

di Andrea Monda