DONNE CHIESA MONDO

La zizzania

Il bene e il male

taiteilija: Simberg, Hugo
Inventaarionro A II 1703
teosnimi: Haavoittunut enkeli
haltija: ...
04 giugno 2022

Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo.  Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò.  Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania.  Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”.  Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No — rispose — perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: “Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio”».

Matteo 13, 24-30


Ogni notte, ogni giorno la zizzania cresce silenziosa intorno a me e dentro me. Alle sei del mattino, ogni mattino, mentre il caffè sale, scarico stordita la lavastoviglie, in una cucina angusta, dove i cani e i gatti affamati ostruiscono i miei movimenti. Lancio irritata i piatti nella credenza, il latte bolle ed esce sui fornelli, ma non c’è tempo per pulire. Cibo per animali trabocca dalle ciotole, inonda il pavimento: cani e gatti sgranocchiano in silenzio, lanciandomi occhiate intimorite. Chiamo i bambini, gridando loro che è il momento di alzarsi, di fare colazione, che i vestiti e gli zaini non sono pronti e neppure le merende. Allora si svegliano storditi, agitati, e la piccola inizia ad accusare la sorella di averle preso la felpa rosa. Sono già le sette e la felpa non si trova e certo che non si trova perché la vostra camera è un disastro e tutto quello che non vi va di piegare lo buttate a terra o lo mettete a lavare!

Alle sette e mezza, sbraitando, esco e metto in moto per riscaldare il motore: mentre suono perentoria il clacson perché si devono sbrigare a scendere, alzo gli occhi e vedo incorniciata d’azzurro la vetta tonda del Subasio. È ricoperta di neve fresca. Stanotte allora è nevicato e neanche prima, quando ho aperto le persiane, l’avevo notato. La vetta è un enorme soave pandoro, cosparso di zucchero a velo, che richiama tutti ad avvicinarsi e sedersi al tavolo della festa.

Ed io è lì che vorrei andare: in quel bianco buono di pace. Ma ci voglio andare anche con i figli, con i cani, con i gatti, perché da sola non saprei cosa farmene di quella serenità abbagliante. E così, quando i bambini si tuffano in macchina con il grembiule ancora slacciato, e leggo nello specchietto retrovisore la loro paura di me, mi vergogno. Fisso gli occhi sul Subasio e il suo bianco inerme e gioioso mi aiuta a disinfestare il cuore dal rimescolio del nero. Remissiva lo lascio agire. Struggermi nella colpa mi riconsegnerebbe alle seducenti prigioni del mio Io. Mi accetto così: accetto l’essere campo, limitato ed esposto, in cui semi germogliano e producono piante cattive e buone, che mi è difficile distinguere. Sono semi non miei. Ma non voglio avere paura. Imparare la mitezza, invece. A me, campo, sta il vivere sopportando l’insensatezza del male, accoglierlo dentro e fuori di me. Sapendo che, inaspettato, improvviso come un bagliore di spada, come un colpo che rischiara, il discernimento arriva: proprio quando l’artiglio della zizzania sembra essere sul punto di sopraffare il grano. Ed è allora che il nemico svela il suo volto e il campo coltivato può finalmente divenire un campo di battaglia. Resistere alle cariche del male, rimanendo con lo sguardo fisso sul quel grano in nome del quale si combatte.

E in questa fredda mattina di febbraio riconosco un’impensabile letizia che rischiava di sfuggirmi e che invece è sbocciata nel campo, per me, proprio per me: la bellezza della neve, la presenza dei miei figli. Accendo la radio e sfrecciamo a scuola cantando. Prima esitando, poi a squarciagola.

Nel quadro intitolato L’angelo ferito, del pittore finlandese Hugo Simberg, due ragazzi hanno avuto come me l’opportunità di percepire il male dentro se stessi e a questo reagire. Trasportano su una barella un angelo ferito. Loro. Non si aspettavano questa inversione di ruoli: erano loro che dovevano essere guidati, aiutati, soccorsi. Erano loro che ogni sera devotamente recitavano la preghiera dell’angelo custode, prima di addormentarsi tranquilli, con la propria coscienza smacchiata dalla compunzione. Ma un pomeriggio, in un prato vicino casa, avevano litigato furiosamente. Rabbia e odio erano divampati in loro, il cuore si era fatto nero, la lingua aveva sibilato parole violente, parole velenose.

Il motivo è ora difficile da ricordare.

Provando a calmarli con parole accorate e dolci, sussurrate alle menti, provando a separarli fluttuando tra i ragazzi che iniziavano ad azzuffarsi, l’angelo custode si ferì a un’ala e cadde. Al tonfo i due si fermarono; videro attoniti un angelo sanguinante in mezzo a loro; si guardarono negli occhi a lungo mentre l’odio svaniva e, liberati, tornavano a essere due ragazzi. La vergogna che sentirono crescere dentro sé non li paralizzò: con dei bastoni costruirono una lettiga e uno di loro tirò fuori dal taschino della giacca un fazzoletto bianco per bendare le tempie escoriate dell’angelo. L’avrebbero curato e sarebbero stati loro stavolta a proteggerlo, a confortarlo: raccolsero per lui un mazzetto di giunchiglie affinché li perdonasse e, cadenzando il passo, con premura si avviarono.

di Elena Buia Rutt