Il Papa e il dialogo con l’islam

Solo la pace è santa

 Solo la pace è santa  QUO-074
31 marzo 2022

L’impegno, le scelte e i viaggi di Papa Francesco, in particolare quelli decisi e voluti nei Paesi arabi, hanno portato sin dalla stesura della Evangelii gaudium alla definizione di un pontificato fondato sul dialogo e alla proposta di una “nuova santa alleanza” per il Mediterraneo. Su questi temi è incentrato il libro di Riccardo Cristiano, Figli dello stesso mare, Francesco e la nuova alleanza per il Mediterraneo (Castelvecchi, Roma, 2022, pagine 230, euro 17,50) di cui pubblichiamo  ampi stralci della prefazione. Ripercorrendo la storia dell’islam e contestualizzando i difficili rapporti tra i popoli e le diverse religioni, l’autore ricostruisce il percorso che conduce al primo Documento congiunto sulla fratellanza umana firmato nel 2019 dal Pontefice e dal grande imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyib, mettendo in risalto come tale scritto fondi una nuova visione e rinnovi la speranza di conciliazione tra sunniti e sciiti dopo un conflitto che li oppone da più di quarant’anni. Sempre avendo come faro l’Evangelii gaudium,  il volume si sofferma inoltre su altri importanti documenti e sui viaggi di Francesco a Lampedusa, Lesbo, negli Emirati Arabi Uniti, in Egitto, in Marocco, in Iraq.     

Lo spazio pubblico moderno è il luogo di una declericalizzazione sorta non solo contro la Chiesa ma anche grazie al doppio registro dei regni, terreno e celeste, affermato dalla fede. Come ha scritto Marcel Gauchet, il cristianesimo è la «religione dell’uscita dalla religione». Questa relazione tra una fede non fondamentalista e una laicità “aperta” è, come mostra la riflessione di Jurgen Habermas, la questione odierna. Trasferita nei Paesi dell’islam la questione assume il volto non di un rinnegamento della tradizione, come vorrebbe l’illuminismo radicale di tipo occidentalista, ma di una valorizzazione delle sue virtualità atte a incontrarsi con la parte autenticamente universale dell’illuminismo moderno. Nel far ciò il pensiero islamico è chiamato a un’opera di storicizzazione analoga a quella svolta dal pensiero cattolico a partire dalla metà degli anni Trenta, grazie soprattutto a Jacques Maritain, opera che troverà poi la sua sintesi nel concilio Vaticano ii . Mediante essa veniva riconosciuto il valore della civiltà cristiana medievale senza, però, che ciò implicasse, come accadeva per molti cattolici, la sua elevazione a “modello” in antitesi al mondo moderno, ateo e secolarizzato. Questa “relativizzazione” rendeva possibile il riconoscimento di altre virtualità della fede che trovavano realizzazione proprio nell’età moderna. Tra queste il tema dei diritti naturali e della libertà religiosa. In modo analogo l’islam è chiamato oggi a distinguere la fede dal suo passato storico, riconoscendo in esso pregi e difetti. La civiltà islamica, come ha scritto l’ex presidente iraniano Khatami, «è stata fondata sul Corano, ma secondo deduzioni e metodi interpretativi che l’uomo di quei giorni elaborava riguardo al Corano, al libro, alla religione, all’essere umano, al mondo. Questa civiltà dei tempi d’oro è finita. Se essa fosse stata l’incarnazione piena della dottrina del Corano o dell’islam, una simile affermazione ci indurrebbe a concludere che anche il Corano e l’islam siano finiti».

Al contrario della prospettiva manichea, che è “parassita” dell’avversario e non si alimenta senza un nemico, la fede religiosa autentica non teme di confrontarsi con il tempo storico, distinguendo in esso positivo e negativo. Questo spiega il confronto, aperto e serrato, che segna l’islam contemporaneo, fra tradizionalismo e innovazione, un confronto di cui in Europa si sa troppo poco e che il volume di Cristiano ha il pregio di restituirci. Ciò spiega il realizzarsi di disposizioni legislative che abbandonano, di fatto, la poligamia, la correzione dei diritti ereditari delle donne, l’ampliamento dei diritti in materia di libertà religiosa. È un processo che, con significative battute d’arresto, è in pieno svolgimento. È questa la miglior confutazione di quanti affermano, in Occidente, l’opposizione ineluttabile tra tradizione religiosa e modernità.

Il vero punto della questione comunque, quello che permette il dialogo tra fede e mondo moderno, è il superamento della “teologia politica”. Questo superamento se da un lato è decisamente problematico nella misura in cui porta all’assolutizzazione dello Stato moderno, dall’altro, però, consente di recuperare la consapevolezza del rapporto tra fede e libertà. Una consapevolezza che trova nel concilio Vaticano ii la sua espressione compiuta. Il Vaticano ii è un punto d’arrivo e, insieme, un punto d’equilibrio che la Chiesa, dopo due secoli di polemiche, ha trovato con la modernità, fuori dell’antitesi tra reazione e mondanizzazione. È grazie all’opera del Concilio che il cattolicesimo ha potuto neutralizzare ogni possibile fondamentalismo “religioso”. Il Concilio neutralizza la teologia-politica e ciò consente di distinguere tra Chiesa e mondo, sacro e profano. Consente la Dignitatis humanae, la fondamentale dichiarazione sulla libertà religiosa, fondata sul fatto che la fede è opera della Grazia di Dio e non dell’azione dell’uomo. Dal Concilio muove anche l’apertura verso gli ebrei e verso gli islamici con la dichiarazione Nostra aetate. È una svolta, un approcciò profondamente nuovo che rompe con una consuetudine secolare fatta di diffidenza e di ostilità. Giovanni Paolo ii, con le sue storiche visite alla sinagoga di Roma prima, il 13 aprile 1986, e alla moschea degli Omayyadi a Damasco poi, il 6 maggio 2001, indica il punto di svolta. Da questo punto di vista la “Common Word”, sottoscritta da 138 alte personalità islamiche di tutto il mondo, costituisce, in ambito musulmano, una sorta di Nostra aetate. Il mondo islamico sta avviando un processo di confronto con la modernità e di dialogo interreligioso analogo a quello che il cattolicesimo ha inaugurato con il concilio Vaticano ii. Un processo di portata incalcolabile, uno degli eventi più importanti del xxi secolo. Questo processo non sarebbe però possibile, come mostra bene Riccardo Cristiano, se non trovasse una sponda preziosa, essenziale, nella Chiesa cattolica. È il cattolicesimo romano, rappresentato attualmente da Papa Francesco, che consente oggi l’emersione dell’anima liberale dell’islam. Un sostegno non compreso da molti cattolici, che scambiano il dialogo con l’islam come un sintomo di debolezza, e osteggiato fortemente dall’islamismo radicale, che vorrebbe la guerra e non già il dialogo tra le religioni.

Un momento fondamentale di questo dialogo lo si è avuto con il viaggio del Papa in Egitto il 28 e 29 aprile 2017. Francesco ha intrapreso il suo viaggio a tre settimane dalle stragi della Domenica delle Palme a Tanta, a nord del Cairo, e ad Alessandria. Lo ha fatto perfettamente consapevole dei rischi per la sua incolumità. E stato ripagato da un’accoglienza calorosa, colma di gratitudine da parte dei cristiani copti ortodossi, cattolici, e dagli stessi musulmani. L’incontro con il presidente Abdel Fattah al-Sisi, con il grande imam di Al-Azhar, Ahmad al-Tayyib e con il patriarca copto Tawadros ha costituito un evento storico. Alla Conferenza internazionale sulla pace, promossa dall’università islamica di Al-Azhar, il Papa ha parlato con forza contro la legittimazione della violenza da parte della religione. E ha affermato: «Egli è Dio di pace, Dio salam. Perciò solo la pace è santa e nessuna violenza può essere perpetrata in nome di Dio, perché profanerebbe il suo Nome. Insieme, da questa terra d’incontro tra Cielo e terra, di alleanze tra le genti e tra i credenti, ripetiamo un “no” forte e chiaro ad ogni forma di violenza, vendetta e odio commessi in nome della religione o in nome di Dio. Insieme affermiamo l’incompatibilità tra violenza e fede, tra credere e odiare. Insieme dichiariamo la sacralità di ogni vita umana contro qualsiasi forma di violenza fisica, sociale, educativa o psicologica». Collocate in terra d’Egitto queste parole, dette da un Papa che ha sempre distinto tra l’islam e le sue patologie, sono risuonate come un sostegno a tutti coloro che, nel mondo musulmano, non si riconoscono nella brutalità del terrorismo religioso.

di Massimo Borghesi