Cosa fare in tempo di guerra

Quel “noi” alternativo
che ci può salvare

 Quel “noi” alternativo  che ci può salvare  QUO-074
31 marzo 2022

Una riflessione di Franco Anelli


Pubblichiamo un estratto del discorso pronunciato dal rettore in occasione del “Dies academicus” che si è svolto il 30 marzo scorso nel campus di Piacenza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Pensavamo che il problema dei diritti umani appartenesse ad altre civiltà. E invece l’invasione dell’Ucraina ci ha mostrato che anche i nostri possono essere in pericolo. Paesi per tradizione e cultura uguali al nostro possono essere travolti dalla barbarie. Le immagini che ci arrivano di città, così simili alle nostre, tramutate in fronti di guerra, ci ricordano con atroce familiarità le distruzioni che noi stessi abbiamo vissuto. Somigliano in modo inquietante ad alcune fotografie riemerse dagli archivi del nostro Ateneo per le celebrazioni del suo primo centenario di vita: la nostra sede milanese devastata dai bombardamenti, i muri caduti, le stanze sventrate, nelle vie pochi passanti tra le rovine.

Per fortuna, insieme alla paura, la guerra muove altri istinti, più profondamente umani, come la solidarietà e la speranza. E ciò a maggior ragione per una università come la nostra, che porta nella sua denominazione il legame con il cattolicesimo e con la Chiesa universale. Si potrebbe essere indotti a pensare che, nel fragore della guerra, la voce delle università sia destinata a essere sovrastata; che al più gli atenei possano con tenacia continuare a operare, in silenzio, per costruire il dopo.

Invece si può fare molto di più. Il Mercoledì delle Ceneri, accogliendo la proposta di Papa Francesco, abbiamo invitato la nostra comunità alla preghiera per la pace. Una studentessa ucraina ha preso la parola. «Vi prego — ci ha detto commossa — ora che russi e ucraini sono spinti a odiarsi, intensificate le occasioni di incontro, mantenete vive le relazioni culturali tra noi e loro».

In mezzo al conflitto, quando si lotta per la sopravvivenza, che posto rimane alla cultura? La risposta l’ha data, meglio di chiunque altro, proprio lei. Le sue parole danno il senso del compito di un’università: educare alla cultura e, per quella via, promuovere la solidarietà, la speranza e, soprattutto, la pace. Perché educare è, essenzialmente, educare alla pace, attraverso una ricerca della conoscenza e della verità che si svolge secondo un confronto dialettico.

Un rispecchiarsi reciproco perfettamente espresso dalla lettera aperta che la poetessa russa Olga Sedakòva ha scritto agli ucraini all’inizio del conflitto: «Vi auguro di tutto cuore una piena autonomia, la piena libertà di scegliere il vostro futuro e la libertà dalla terribile minaccia che proviene dai vostri vicini, cioè da noi. Anche se è triste dire “noi” in questo frangente». Il filosofo ucraino Konstantin Sigov, da una Kiev già assediata dai carri armati russi, ha ringraziato commentando: «Probabilmente c’è anche un altro “noi”». L’«altro noi» a cui fa riferimento è lo spazio della pace che si costruisce con il riconoscimento reciproco, la comprensione della storia e dell’identità dell’uno e dell’altro. A questo ci riferiamo quando parliamo di educazione.

Un luogo in cui ciò può accadere è l’università. In tempi di conflitti gli atenei devono rimanere luoghi di pace per aiutare a comprendere, a tenere vivo il dialogo e a preparare il terreno per quello che accadrà dopo. Nel deserto che ogni guerra si lascia alle spalle, le università devono restare le oasi dove può ricominciare la vita. Perché siano davvero luoghi aperti, è essenziale che i bisogni, i drammi degli altri siano riconosciuti e accolti. In molte delle iniziative messe in atto si esprime la nostra idea di solidarietà come giustizia, come “sodalità”, come legame fra affini che spinge il mondo, al di là del semplice progresso materiale, e delle contingenze della storia.

Ma la solidarietà non va disgiunta dalla speranza. «Il suo lavoro — scriveva il laicissimo filosofo tedesco Ernst Bloch in Il principio speranza — non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è passivo come questo sentimento. Il suo effetto si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato».

Per noi cristiani, che vediamo nella speranza anche la fiducia in una promessa che non potrà essere tradita, questa parola non indica soltanto un atteggiamento, bensì un compito da svolgere. E per la nostra università significa dare sempre più senso alla sua vocazione originaria, impegnandosi a combattere ciò che sta all’origine dei conflitti, che hanno una radice sempre più profondamente culturale. Le condizioni di possibilità della coesistenza pacifica, della collaborazione tra i popoli e di una prosperità diffusa possono perciò scaturire soltanto dalla capacità di far dialogare tradizioni e modelli sociali differenti, instaurando relazioni di mutuo riconoscimento. Il conflitto si alimenta della non conoscenza non solo dell’altro, ma anche di sé. L’assenza di una chiara percezione della propria identità e storia collettiva è la premessa del fallimento di qualsiasi tentativo di dialogo tra i popoli, perché porta a costruire la propria immagine in termini puramente negativi, come contrapposizione all’altro; porta a bollare gli altri come “barbari”. Come soggetti che non parlano la nostra lingua, con cui è impossibile comunicare. Se invece si matura la consapevolezza che non è l’avversione per il nemico la “soluzione”, il rimedio alla carenza di una chiara percezione di sé, allora non si sfugge alla necessità di una propria “cultura” come coscienza collettiva. E qui il ruolo delle università è ineludibile, sia per concorrere alla costruzione e al riconoscimento delle culture dei contesti nazionali in cui operano, sia per rendere possibile il dialogo con le identità altre, per superare la reciproca accusa di “barbarie”. Per questo l’università può ritenersi un’istituzione di speranza e costruttrice di pace.

«Sogno un’Europa “universitaria e madre” che, memore della sua cultura, infonda speranza ai figli e sia strumento di pace per il mondo» ha detto, cinque anni fa, con parole profetiche il Santo Padre, rivolgendosi agli studenti e al mondo accademico.

Educazione è speranza. Ma per alimentarla occorre audacia e capacità di rompere gli schemi con gesti simbolici. Come quello che ha fatto Papa Francesco all’inizio della guerra: un capo di Stato che si sposta per recarsi da un ambasciatore (russo) non è cosa frequente e, come sappiamo, ha destato commenti contrastanti. Il Pontefice, dando corpo al suo essere “costruttore di ponti”, ha scavalcato le barriere delle formalità: davanti all’esplodere del conflitto ha fatto prevalere la cura per le popolazioni, la fiducia nell’umanità, la speranza nella forza della pace. Questo suo umile viaggio verso il cuore degli altri emergerà come un segno luminoso nel buio della paura e del pericolo. Ed è una guida anche per il nostro compito in questo momento di crisi, in cui, usando ancora le parole di Ernst Bloch (in Lo spirito dell’Utopia), dobbiamo essere capaci di esercitare il «paradossale coraggio di profetizzare la luce proprio dalla nebbia». (franco anelli)