L'ascolto
Tra psicoanalisi e teologia

Un atto unico

 Un atto unico  QUO-071
28 marzo 2022

D’accordo: in principio era il Logos. Ma in un tempuscolo infinitamente piccolo, quasi impercettibile — anzi: virtualmente nullo — si dà un orecchio; interno, esterno, simbolico, reale, metaforico, non importa. Quel che è certo è che senza una traiettoria e un dispositivo di ricezione, di ascolto, la parola non è solo inutile, semplicemente evapora, non sussiste più. È un accoppiamento strutturale quello che lega la parola al suo destino all’interno del quale si scrive il meraviglioso e tremendo romanzo dell’umano, essere in relazione.

È Dio che ascolta l’umano ovvero è l’umano chiamato ad ascoltare Dio? Lo spirito della riflessione che segue è dimostrare che, almeno psicodinamicamente, questa antinomia è mal posta perché ascoltare, ascoltar-si ed essere ascoltati sembrano atti distinti di un catalogo di possibilità ma invero, ad uno sguardo profondo, si rivelano per quello che sono: un atto unico. All’inizio della vita del cucciolo di umano il ciclo ascoltare—ascoltarsi—essere ascoltati si vede chiaro: l’infans ama emettere suoni e gustarsi l’effetto che fanno alle sue stesse orecchie, magari dopo essere rimbalzati nell’orecchio e soprattutto nell’animo del mondo adulto, in un ciclo che si sperimenta e autocorregge di continuo. Arriva poi un momento in cui l’ascolto dell’adulto diventa testimonianza, pura presenza che consenta al cucciolo di stare serenamente fra sé e sé.

Perché ci sia ascolto rispettoso occorrono: silenzio, attenzione, un certo ritmo e una ricevuta. La mia maestra di psicoanalisi mi diceva sempre di dare al paziente una ricevuta, un riscontro del mio ascolto. Un ascolto senza la ricevuta è come uno specchio che ha perso la capacità di riflettere. Ma attenzione a non confondere una ricevuta con una risposta. L’urgenza della risposta spesso sciupa l’ascolto; un buon ascolto sa resistere alla dannazione della risposta che fa dell’ascolto un commercio, magari anche nobile, ma pur sempre commercio.

Capii il senso di questa “ricevuta” anni più tardi quando gli operatori della comunità terapeutica dove lavoravo mi chiedevano: «Ma cosa dobbiamo rispondere al paziente schizofrenico quando ci ingaggia, angosciato, con domande astruse e discorsi incomprensibili?».

Consigliai loro una strategia molto semplice: per prima cosa dare un luogo adatto alla relazione di ascolto e i corridoi non lo sono; poi, dopo averlo attentamente ascoltato senza interromperlo, ricapitolare parola per parola, magari aggiustandone qualcuna, l’astrusa domanda ricevuta e alla fine sincerarsi con una certa solennità: «Ho capito bene? È proprio questo che volevi dirmi?». Nessuna risposta, dunque, solo la ricevuta dell’ascolto; è davvero sorprendente vedere come, per un paziente particolarmente compromesso, la pura e semplice esperienza di essere stato ascoltato sia calmante. Di più: strutturante.

Nella stanza di psicoanalisi invece ci sono tre protagonisti: il silenzio, il divano analitico con la sedia dell’analista alle sue spalle sottratta alla vista del paziente, e infine le parole.

Il divano analitico, fra le altre, ha una funzione decisiva: disinstalla il senso della vista sottraendo la coppia analitica allo sguardo reciproco. Il senso della vista ha un suo abisso e una sua arroganza. L’abisso è dovuto al tremendo riverbero che genera il guardare l’altro guardarmi, un abisso che fa molto rumore di fondo e strattona l’ascolto; l’arroganza è dovuta al pregiudizio che la vista sia la regina della verità. Ricordo, dagli studi del liceo, l’esistenza di un verbo greco, oída, la cui traduzione è: so per averlo visto, un sapere di ordine superiore che ha finito per inzeppare la memoria degli smartphone di foto e video cui si è delegato il compito di testimoniare il vero e ottenere ascolto senza nemmeno la fatica del racconto. L’ascolto in vicinanza sottratto allo sguardo è un’esperienza straniante e molto feconda che il setting psicoanalitico, ma non solo, ha fatto sua.

Anche il sacramento della Riconciliazione dispone tradizionalmente di un setting di vicinanza senza sguardo: il confessionale. Ne ho capito con pienezza il senso e soprattutto le analogie con quello psicoanalitico, durante un mio ritiro in un monastero dove osservai un singolare modello di confessionale. Si trattava di uno strano banco a forma di S che posizionava il confessore e il penitente, seduti uno accanto all’altro, nell’incavo di questa S, ma con lo sguardo dell’uno diretto in direzione opposta allo sguardo dell’altro. Lo sguardo del penitente, in particolare era rivolto ad una parete dove campeggiava, ben illuminato, un crocifisso. Questa gestalt vagamente isomorfa al setting psicoanalitico classico ne condivide un principio: l’ascolto vicino ed attento di psicoanalista e sacerdote ha il compito di indicare e dirottare il focus del problema nella giusta direzione dell’Altro e non dell’altro. Lo sguardo sarebbe d’intralcio.

Il fraseggio nella stanza di analisi ha un suo ritmo fatto di pause e parole. Un analista formato mette tempo e silenzio fra le parole. Un ascolto che non abbia un ritmo, delle pause e una sua lentezza non è un ascolto, è puro udire. Tutto questo si è meritato un florilegio di ironia e spesso sarcasmo da parte di chi, con il tempo, si è abituato al ritmo incalzante, adrenalinico e irrispettoso del talk show e vede nell’interior design della stanza analitica e nelle sue liturgie qualcosa di anacronistico e snob ma non è così, è una vicenda potente e molto seria.

Uno psicoanalista anglo—indiano, Wilfred Bion, depositò uno degli aforismi più scabrosi della letteratura psicoanalitica il cui senso è stato spesso frainteso quando non addirittura sbeffeggiato nella storia della psicoanalisi. Egli sostenne che l’analista in seduta, per quanto può, deve «rinunciare a memoria e desiderio». Tutti hanno creduto che fosse l’iperbole di un pensatore eccentrico: come si fa a sospendere la memoria in una seduta psicoanalitica con un paziente e soprattutto come si fa a non desiderare il bene del paziente (che incarta e porta in dote la malcelata vanagloria dell’analista che si vanterà del successo della cura)? Bion voleva suggerire una cosa precisa all’analista mentre ascolta il paziente: stai qui, solo del tutto qui e stai attento. Fai il silenzio e genera il vuoto affinché tu possa ascoltare l’inedito, il nuovo e addirittura il vero. Se qualcuno intravede in questo l’animo di Meister Eckhart, il mistico renano che sosteneva che per ascoltare Dio occorre fare vuoto e silenzio, vede bene. Bion ha citato Meister Eckhart in lungo e in largo nei suoi scritti. L’ascolto è attenzione e se Simone Weil ha potuto sostenere che l’attenzione è la forma più rara e più pura della generosità, è perché prestare attenzione all’altro può rivelarsi difficile, costoso, talvolta addirittura rischioso.

A proposito di memoria e desiderio, una cattiva psicoanalisi del trauma ha fatto suo un pregiudizio che è questo: chi è stato ferito da un trauma, specie se è un bambino o adolescente, deve rievocarlo e tirarlo fuori. Inaccettabile l’espressione deve, impropria l’espressione rievocarlo e tirarlo fuori. Il bambino o l’adolescente che ha subito un’esperienza traumatica ha solo una necessità: percepire che chi gli sta accanto lo ascolti con la delicatezza e la cautela con cui si approccia una riserva indiana sconosciuta e lo aiuti a cavarsela come meglio può con quanto gli è accaduto. Sarà il bambino o l’adolescente a mostrare la direzione: parlarne a tempo debito, non parlarne mai, dimenticarlo il prima possibile, trasformarlo in qualcos’altro, raccontarlo per tutta la vita.

Un paziente ha la priorità di essere ascoltato. Nel messaggio per la 56esima giornata mondiale delle comunicazioni sociali, dal quale questa mia riflessione prende le mosse, Papa Francesco fa sua la citazione di un medico secondo cui il bisogno più grande di un essere umano è il «desiderio sconfinato di essere ascoltato». Che l’ascolto sia l’atto egemone della clinica medica tout court e non solo prerogativa delle discipline di cura con le parole, lo ha sancito nel 1999 un articolo del British Medical Journal che ha coniato, in malcelata opposizione alla evidence based medicine, la definizione di narrative based medicine. In questa epoca ingenuamente vorace di dati e numeri che dicano il vero, la medicina narrativa, volendo riepilogarla in uno slogan, dice: il racconto, la tematizzazione del proprio soffrire da parte del paziente non è un gadget in dotazione a medici paterni e magnanimi ma un requisito dei medici bravi, efficienti. Infatti lo studio del 1999 dimostra che se il medico nella raccolta della storia clinica e della sintomatologia del paziente dispone del tempo necessario, formula domande aperte, si consente di perdersi in rivoli tematici solo apparentemente non pertinenti alla interrogazione clinica — in definitiva: ascolta — ha una possibilità sensibilmente superiore, dati alla mano, di fare una buona e precoce diagnosi, di ridurre il ricorso a indagini e, cosa che non guasta, di creare un campo terapeutico fiduciario, affettivamente più qualificato. L’ascolto letteralmente tocca il corpo.

L’ultimo pensiero per concludere. C’è qualcosa dell’ascolto che ha a che vedere con il ritiro. Ascoltare è lasciare spazio all’altro, ritirandosi e ritirando la pretesa dell’Io di chi ascolta di occupare la scena. Un buon ascolto, in particolare il più sbilanciato come quello genitoriale o psicoanalitico, ma, a ben vedere, anche quelli più simmetrici, è una presenza che tende all’eclissi, che prepara e aiuta a sostenere la fatica dell’assenza. Se invece l’ascolto sempre corrisponde, satura e illude, allora non lascia liberi. Un bambino che è stato bene ascoltato vedrà il frutto di quell’ascolto nel tempo e a distanza, proprio come fa un vaccino, ma a differenza di questo non avrà effetti immunitari, che lo proteggano, ma comunitari che lo mettano in relazione con l’Altro. L’esatto contrario.

di Walter Procaccio