La difficile arte di lasciarsi “rapire” dalla musica

Il silenzio è il tappeto
su cui il compositore
poggia le sue note

 Il silenzio è il tappeto su cui il compositore poggia le sue note  QUO-071
28 marzo 2022

È un grande sollievo sentirsi ascoltati. Chi sa ascoltare è in grado di immergersi completamente nella vita dell’altro, facendo spazio dentro di sé, sperimentando fino in fondo la compassione. Facendosi trasformare, modellare, plasmare da quell’ascolto che penetra nel profondo. Per questo motivo, chi ascolta veramente, come chi ama, si rende vulnerabile all’altro. Nell’accoglienza disarmata e umile, che è il simbolo dell’ascolto vero, vi è la testimonianza di quali altezze possa raggiungere l’uomo. «Ascoltate, e la vostra anima vivrà» (Is. 55, 3). L’ascolto viene prima della parola detta, e attraverso di esso passa una straordinaria esperienza di vita.

L’esperienza del musicista, del compositore o, più semplicemente, di chi abitualmente frequenta i concerti, può servire ad annotare tre semplici punti che con l’ascolto hanno a che fare, eccome, e possono aiutarci a comprendere cosa significhi ascoltare veramente.

Raramente ascoltiamo senza fare altro. La musica diventa intrattenimento, un’attività secondaria che serve a riempire il tempo impiegato durante un’altra azione. Ascoltiamo musica in movimento, mentre studiamo, mentre leggiamo, mentre laviamo i piatti. Ascoltiamo musica al bar, in metro, mentre guardiamo il televisore. Anche durante un concerto, di fronte ad un’orchestra che suona, il nostro massimo impegno a mantenere la concentrazione non basta: il nostro pensiero prima o poi finirà per posarsi su qualcosa d’altro disperdendo i nostri sforzi. Il fatto è che non è per nulla semplice concentrarsi sulle note, o sulle parole, quando noi siamo abituati soprattutto a guardare immagini o, tuttalpiù, ad ascoltare guardando qualcosa. Il predominio dell’immagine, con gli occhi, posti al centro del viso, spesso ha la meglio sul suono, e sulle orecchie che se ne stanno più discrete a lato. Eppure, l’ascolto vero, presuppone che questo sia prevalente, unico, che non vi sia altra azione se non quella di essere rapiti totalmente da ciò che stiamo ascoltando. Vale per la musica come per le persone: ascoltare qualcuno è un’azione “esclusiva”, non vi può essere nulla che si frapponga fra me è colui che sto ascoltando.

Chi fa musica in un gruppo sa bene che per suonare assieme non basta essere bravi con il proprio strumento, ma occorre esercitare l’orecchio ad ascoltare l’altro, per trovare così il giusto equilibrio.

Il concetto di armonia ha alla base proprio questa duplice capacità che fa sì che, mentre suoniamo, riusciamo a connetterci con l’altro e ad innescare un’alchimia magica che può rendere un’esecuzione unica, miracolosa. C’è un’azione però che sta alla base di tutto, senza la quale non sarebbe nemmeno possibile iniziare a suonare. Sul palco, dopo che l’orchestra si è disposta, prima dell’entrata del direttore, l’oboe da il “la”, vibra nell’aria una nota su cui tutti gli altri strumenti si accordano. Questo gesto banale è alla base di ogni concerto possibile, di ogni armonia. Senza questo gesto non vi sarebbe musica, non vi sarebbe ascolto. La comprensione dell’altro, anche al di fuori della musica, la possibilità di suonarci assieme nella vita, passa da questo preliminare atto di “accordatura”. È il tentare di metterci sulla stessa lunghezza d’onda, di chiederci cosa posso fare per avvicinarmi al suo modo di esprimersi, per mettermi il più possibile nei suoi panni. Le differenze di lingua, di cultura, di ceto sociale, possono essere barriere insuperabili che rischiano di impedire qualsiasi tipo d’ascolto. L’accordatura iniziale, l’umile piegarsi del violino che cerca la stessa frequenza dell’oboe, è l’esempio di quanto l’ascolto esiga, sempre, all’inizio, un gesto di umiltà e di disponibilità a pensare non con le proprie categorie.

In musica, un’esperienza di ascolto vero necessita sempre di silenzio. Il silenzio è il tappeto su cui il compositore poggia le sue note. Ne abbiamo esperienza diretta quando il direttore entra in sala, sale sul podio e, prima di dare inizio all’esecuzione, attende che non vi siano troppi rumori estranei. Quel silenzio gravido di attesa è la precondizione dell’ascolto di un’opera, è il momento in cui si crea lo spazio, fisico e sonoro, utile a far posto alla musica che verrà di lì a poco. Che ascolto sarebbe se, oltre alle note, sentissimo clacson di auto, risate sparse ed altri rumori indistinti? Sarebbe impossibile un ascolto pieno e concentrato. Ma, la necessità di silenzio nella sala da concerto, non è che metafora di qualcosa di più profondo perché, come scriveva Madeleine Delbrêl, «tutti i rumori che ci circondano fanno molto meno strepito di noi stessi. Il vero rumore è l’eco che le cose hanno in noi». Sembra di sentire sant’Agostino che così pregava: «Liberami, o mio Dio, dalla moltitudine di parole di cui soffro nell’interno della mia anima misera alla tua presenza e che si rifugia nella tua misericordia; infatti non tace il pensiero, anche quando tace la mia bocca».

L’ascolto, quello che lascia che il messaggio entri dentro di sé e si imprima nel cuore e nella mente, è figlio di un’anima che vive nel silenzio, che si è liberata da inutili frastuoni ed è dunque pronta ad accogliere la novità dell’altro.

di Cristian Carrara