L’arrivo a Londra dei Rolling Stones

Tre ragazzi
senza un soldo in tasca

BUROR
26 marzo 2022

Superare l’inverno del 1962 fu un’impresa, per quei tre ventenni venuti a Londra a inseguire un sogno comune: suonare il rhythm and blues. Non hanno uno scellino in tasca. Si chiamano Brian, Mick e Keith. Amano Chuck Berry e Muddy Waters, la musica dei neri americani. Mick e Keith si conoscono da quando erano ancora bambini, hanno gli stessi gusti, sono come gemelli siamesi; Brian, il biondo, che si è unito a loro più tardi, è già padre di tre figli avuti da tre donne diverse: è un tipo geniale e strambo, riesce a suonare qualsiasi strumento. Sono sarcastici, insolenti. Tirano a campare; scroccano da mangiare dove si può; sfruttano senza pietà amici benestanti e compiacenti. Non hanno le idee molto chiare, ma su una cosa non hanno dubbi: vogliono essere protagonisti di quel luogo eccitante che sta diventando Londra. Londra assomigliava al mondo, come New York. Un mondo che stava cambiando in fretta, come una pietra che rotola. Un mondo passava dal bianco e nero al colore. Dall’altra parte del mare e del mondo era stato eletto presidente J.F. Kennedy; la battaglia contro la segregazione razziale stava trovando in Martin Luther King un formidabile paladino. Si sperimentavano nuovi stili in tutti i campi, si respirava una libertà mai avvertita prima. Tutto sembrava parlare nuovi linguaggi. Oltreoceano, Bob Dylan era diventato un potente catalizzatore di questi e di altri fermenti.

I tre giovanotti — Mick Jagger, Keith Richards e Brian Jones — sognano che si unisca a loro il batterista Charlie Watts, che gode di una considerazione di tutto rispetto nell’ambiente jazz; ma Watts non ha tempo da perdere con quei pischelli. Bisognava intanto sfangarla con il freddo inverno londinese, nel tugurio di Edith Grove, a Fulham. Brian, Mick e Keith vivono insieme lì. Possiamo solo immaginare la sporcizia e il disordine che dovevano regnare nel piccolo alloggio. In qualche modo l’inverno passa, come passa tutto, e pure la primavera di quell’anno fatidico. Si avvicina la data della vita, l’occasione insperata: il 12 luglio 1962, al Marquee di Londra, uno dei locali più in voga, in Oxford Street. La band di Alexis Korner aveva una serata nel cartellone del locale, ma contemporaneamente ricevette l’invito per un live alla BBC. Korner chiese ai ragazzi se se la sentissero di sostituirlo. Eccome! Fibrillazione nell’appartamento di Fulham. Brian Jones telefona alla redazione di «Jazz News», per far pubblicare l’annuncio del concerto. Alla domanda: «D’accordo. Come vi chiamate?», Brian va nel panico. Non hanno ancora un nome. A terra c’è la copertina del disco «The Best of Muddy Waters», quei tre non fanno che suonare Muddy Waters. Gli occhi guizzano sul titolo di una canzone che si intitola Rollin’ Stone. «The Rolling Stones», le pietre che rotolano. Suona bene. È solo l’inizio.

In quei mesi rutilanti, l’organico si andrà componendo per come sarebbe rimasto fino al 1969: alla band si sarebbe unito il bassista Billy Wyman, accettato — narra il mito — solo in quanto possessore di un amplificatore superiore rispetto alla strumentazione degli altri; infine, il batterista Charlie Watts avrebbe ceduto alle lusinghe, diventando la quinta pietra. Nelle stesse settimane i Beatles negli Abbey Road Studios, proprio negli anfratti di quell’anno memorabile, incidono Love Me Do, la prima registrazione di un inedito composto da Lennon/McCartney. Sembra di parlare di preistoria. Sono innumerevoli gli incroci tra i quattro di Liverpool e le Pietre Rotolanti, alcuni davvero geometrici, sembrano disegnati dalla mano del destino. I Beatles, ancora in cerca di contratto, avevano sostenuto un’audizione con la casa discografica Decca. Malgrado la buona impressione destata, la Decca preferì a Lennon & Co. un’altra band, Brian Poole & The Tremeloes. Provate a pensare come si siano sentiti di lì a un po’. Avevano bocciato i Beatles! Se il 1962 non viene ricordato come l’anno della catastrofe finale per la Decca, è solo perché qualche mese più tardi George Harrison – proprio un Beatles – parlò al capo dell’etichetta Dick Rowe, suggerendogli di mettere sotto contratto un’altra band: i Rolling Stones. Altro che rivalità! Come non bastasse, I Wanna Be Your Man, il secondo singolo pubblicato dai neonati Stones reca la magica firma Lennon/McCartney. Lo sapevate? Ancora Jagger e Richards non si erano cimentati nella composizione, e allora la premiata ditta “beatlesiana” aveva prestato loro un pezzo. Malgrado l’egida chiara di una complicità e di una reciproca stima tra le due band, attorno a Fab Four e agli Stones venne poi modellata una contrapposizione dai contorni promozionali accesi, eccessivi, costruiti ad arte. Se i Beatles erano apollinei, i bravi ragazzi, ben vestiti, col caschetto in ordine, artefici di melodie armoniose, ai Rolling Stones venne cucito addosso un vestito dionisiaco. Responsabile di questa strategia fu il loro astuto manager Andrew Oldham: «Faremo di voi l’esatto opposto di quegli azzimati, pulitini, graziosi Beatles. E più i genitori vi odieranno, più vi ameranno i figli». Arroganti, immorali, teppisti. Sembra abbiano fatto loro un celebre aforisma di Bertold Brecht: «Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati». Quanto fosse grossolana e approssimativa questa dicotomia lo dirà la storia degli anni a venire: le canzoni dei Beatles contenevano una complessità e una doppiezza subliminale in grado di ossessionare le menti più deboli. Ce lo confermerà l’Album Bianco, ce lo diranno purtroppo Charles Manson, che si ispirò alle canzoni dei Beatles per il massacro di Cielo Drive del 1969, e Mark Chapman, che nel 1980 — una vita dopo — assassinò John Lennon a sangue freddo. Ma queste sono storie che vi racconteremo un’altra volta. All’epoca i poco raccomandabili erano i Rolling Stones, e quello che più di tutti incarnava la parte del bad boy era Brian Jones, il biondo. Era l’uomo-copertina, il vero Rolling primigenio, «un bastardo viscido e insensibile» secondo le parole di Keith Richards, che qualche anno dopo, mentre Brian era in ospedale, sarebbe fuggito con Anita Pallenberg, la ragazza del biondo. Faranno di tutto per aderire al cliché messo a punto da Oldham, fino alla scelta della linguaccia come icona di disobbedienza e sberleffo. Nel frattempo, da quando Keith Richards aveva iniziato a comporre brani originali insieme a Mick Jagger, l’asse della leadership si stava spostando inesorabilmente su loro due, fino a sospingere sempre più ai margini Jones, dal canto suo alienato da paranoie e abuso di droghe. Intruso dentro la creatura che aveva creato, straniero a casa propria. In un mese di luglio era iniziata la favola dei Rolling Stones, a inizio decennio, nel 1962. Era un’alba. In un altro luglio, al tramonto di quella decade di inaudite novità, Brian avrebbe tolto il disturbo per sempre, annegando nella piscina della sua villa. Era il 1969. Anche questa vicenda meriterebbe di essere raccontata in maniera dedicata, approfondita; magari in un’altra occasione. Perché gli anni Sessanta traboccano di storie che si intersecano, di destini che cozzano gli uni dentro gli altri, gli uni contro gli altri. Ma intanto teniamoci negli occhi l’immagine di quei tre ventenni: sono pieni di una cinica innocenza, il loro problema principale è non morire di freddo nel tugurio di Fulham. Sono sbarcati a Londra e vogliono fare il rock e il blues. Ce la faranno.

di Gianluca Veltri