Hic sunt leones

Africa in bianco e nero

Africa and middle east map on a cork globe
25 marzo 2022

«Compete alle razze superiori un diritto, cui fa riscontro un dovere che loro incombe: quello di civilizzare le razze inferiori». È un passaggio del discorso sui fondamenti dell’Imperialismo rivolto dall’artefice delle politiche coloniali della Terza Repubblica, il primo ministro francese Jules Ferry al Parlamento di Parigi nel 1885.

Allora, l’Impero coloniale francese in Africa era esteso dall’oceano Atlantico al lago Ciad per quasi 5 milioni di chilometri quadrati. L’Africa occidentale francese (Aoc) comprendeva Costa d’Avorio, Senegal, Mauritania, Niger e gli attuali Mali e Burkina Faso — solo per guardare alla vasta regione saheliana. Possedimenti francesi erano anche l’Algeria, il Marocco e la Tunisia. Il problema della giustificazione morale e politica dell’espansionismo coloniale europeo nei vari continenti, come quello africano, ha accompagnato, senza però mai trovare una definizione univoca e unanime, tale fenomenologia fin dal suo inizio (15° secolo).

I teorici delle cosiddette politiche coloniali sostennero a lungo il convincimento secondo cui il compito delle potenze europee era quello di recare la civiltà agli altri popoli, come fece ad esempio lo scrittore e politico Alexis de Tocqueville che appoggiò la conquista coloniale dell’Algeria da parte della Francia. Anche se poi non mancarono, in particolare a partire dal 18° secolo, posizioni critiche nei confronti del colonialismo.

Alcuni si opposero a questo indirizzo, come l’economista francese Frédéric Bastiat che criticò fortemente l’espansionismo francese in Algeria per ragioni economiche e di opportunità politica. Altri ritennero le conquiste d’oltremare una palese manifestazione dell’esclusivo interesse allo sfruttamento predatorio dei possessi. È comunque esistito uno scarto, come rilevò il sociologo peruviano Anìbal Quijiano, tra la colonizzazione come processo militare, politico e culturale limitato nel tempo e nello spazio, e «colonidad» (che potremmo tradurre con il termine «colonialità») come forma materiale del potere.

Quijiano, deceduto nel 1918 a Lima e per anni docente presso il dipartimento di Sociologia della Binghamton University, considerava il colonialismo una pratica di conquista, assoggettamento e sfruttamento, mentre la colonialità era per lui più duratura e profonda, fondandosi sulla giustificazione del ruolo dei colonizzatori come organizzatori razionali del mondo e portatori di un ordine superiore. E non v’è dubbio che fu quest’ultima ad instillare nelle masse oppresse quell’atteggiamento di sudditanza tanto oggi giustamente biasimato dalle giovani generazioni.

D’altronde era insito nel concetto stesso di colonialismo l’idea implicita dell’inferiorità delle popolazioni che abitavano e governavano le terre conquistate. Basti pensare al monarca belga Leopoldo ii che nel 1885 riuscì a impossessarsi di un immenso territorio (76 volte più grande del Belgio) ricoperto di vastissime foreste nel cuore dell’Africa subsahariana, il bacino idrografico del fiume Congo.

Quella conquista, avvenuta grazie a un’abilissima campagna di pubbliche relazioni, nel nome della promozione di ricerche geografiche e scientifiche, viene ancora oggi ricordata come uno dei crimini internazionali più infamanti del 19° secolo. Le stime più accreditate parlano di 10 milioni di congolesi che persero la vita a causa di inenarrabili vessazioni, su una popolazione totale di 25 milioni e lo stesso sovrano, dopo le accuse da parte di funzionari inglesi e le proteste da parte di artisti, letterati e missionari, venne poi costretto a cedere l’amministrazione e la sovranità di quei territori (che egli considerava una sua personale proprietà) al governo belga, che resse la colonia ancora per mezzo secolo.

Sta di fatto che l’espansionismo coloniale in Africa raggiunse il suo apice alla fine dell’800, innescando una vera e propria corsa tra le potenze europee. Ad esempio, la risposta britannica alla conquista francese della Tunisia nel 1881 fu l’occupazione dell’Egitto l’anno seguente, considerato strategico per il dominio del commercio mondiale soprattutto per la presenza del Canale di Suez, inaugurato nel 1869 e in grado di collegare il Mediterraneo e l’oceano Indiano, che da quel momento diventò di vitale importanza per la potenza britannica.

Pochi anni dopo l’espansionismo britannico si spinse più a meridione nei territori sudanesi, occupati dai britannici nel 1898. Nel frattempo, la continua competizione tra le potenze europee portò alla Conferenza di Berlino (1884-85) che, com’è noto, rappresentò il culmine di una spartizione dell’Africa. Un processo di conquista e radicamento, antesignano della moderna globalizzazione, non avrebbe tuttavia potuto prodursi senza che nella elaborazione ideologica di gran parte delle élite intellettuali europee del tempo, l’avventura coloniale trovasse una qualche forma di legittimazione, o quanto meno una qualche giustificazione morale. Fu comunque da subito chiaro che nelle valutazioni che gli Stati aggressori compirono prima di intraprendere le conquiste, vi furono considerazioni di carattere economico, politico, militare e strategico, ma a queste si affiancarono spesso, a giustificazione dell’atteggiamento rapace, considerazioni di carattere antropologico, etnologico, sociologico, etico e pedagogico.

Ecco che allora le popolazioni autoctone vennero ritenute ingiustamente inferiori (culturalmente e geneticamente), in quanto non avrebbero mai avuto la possibilità di migliorare e di realizzare una società evoluta. Solo l’intervento dall’esterno di popoli civilizzati e superiori, in grado di organizzare il territorio, sfruttare le risorse, portare cultura e tecnologia, sarebbero state in grado di riscattare quei territori dall’arretratezza, nei limiti comunque imposti dalla natura inferiore delle popolazioni assoggettate.

L’epopea coloniale coinvolse tutte le nazioni europee, dal piccolo Belgio all’Inghilterra, dalla Francia all’Italia. Anche la Germania non rinunciò all’avventura imperialistica. In fondo, nell’Ottocento dominato solo esclusivamente dalle potenze europee, crearsi un impero sembrava essere una necessità, quasi un’ovvietà. Tutti intendevano disporre delle immense ricchezze e risorse del continente africano.

Oggi, la stagione coloniale e imperialista è terminata anche grazie all’impegno di uno straordinario movimento culturale afro che ebbe nelle proprie fila personaggi del calibro del senegalese Léopold Sédar Senghor o del ghanese Kwame Nkrumah. Gli imperi coloniali in Africa non esistono più, mentre permangono e sono ancora visibili i retaggi e le ferite che quel periodo storico ha lasciato sul continente, sulla società e sul presente africano, minandone in alcuni casi anche il futuro.

Da quegli imperi sono sorti Stati liberi e indipendenti, alcuni dei quali però faticano a instaurare solide democrazie, scosse come sono da corruzione, povertà, colpi di Stato, guerre civili... con i conti, in alcuni casi, mai davvero chiusi tra vittime e carnefici. Rimane il fatto che in virtù delle sue straordinarie risorse umane e naturali, l’Africa rimane uno spazio disputato tra le maggiori potenze planetarie.

In futuro tale rilevanza non verrà certamente meno, anche a seguito della crisi ucraina che, indipendentemente dai suoi esiti, ridisegnerà la geopolitica mondiale e dunque quella africana. Alcune tendenze suggeriscono già ora, purtroppo, che la guerra in atto nell’Europa orientale potrebbe esacerbare tendenze regressive preesistenti, allargando lo spettro delle aree ad alta destabilizzazione.

Le crisi economiche e sociali pregresse e mai risolte hanno infatti ampliato il numero degli spazi privi di controllo e di confini, affidati a Stati, come la Repubblica Centrafricana, la Somalia o il Sud Sudan, privati, almeno in parte, di soggettività e spesso incapaci di agire realmente all’interno dei loro territori. La contiguità territoriale e la tradizione nei rapporti obbligano l’Europa a prestare particolare attenzione al futuro africano, anche perché le conseguenze della crescente parcellizzazione dell’Africa, pone una sfida che ancor prima di essere politica o economica, è culturale. Qui il riferimento non è solo al tema della mobilità umana, ma in termini generali, alla comprensione dei reciproci interessi.

Come ebbe a scrivere il grande scrittore, poeta e giornalista polacco Ryszard Kapuściński, «decolonizzarsi culturalmente significa acquisire la consapevolezza dei torti subiti non da noi stessi, ma dalle generazioni passate. Torti che sono il frutto dell’era dello schiavismo e delle conquiste coloniali. Significa anche rendersi conto che questa discriminazione, durata per secoli, conferisce alla gente il diritto morale di rifarsi».

di Giulio Albanese