Hic sunt leones

La vittoria dei vinti

Undated file photo shows the seven French Trappist monks of the Tibhirine Notre-Dame de l'Atlas ...
18 marzo 2022

In una stagione come la nostra, segnata da ingiustizie e sopraffazioni d’ogni genere con grida strazianti e inascoltate dai bassifondi della storia, vi sono ancora oggi donne e uomini «Voce del Verbo».

È questo lo slogan della trentesima edizione della Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri, promossa da Missio, organismo pastorale della Conferenza episcopale italiana (Cei) che si celebrerà il prossimo 24 marzo. Si tratta di un’iniziativa che cade ogni anno nel giorno in cui venne ucciso l’arcivescovo salvadoregno Óscar Arnulfo Romero, mentre celebrava l’Eucarestia.

La memoria dei missionari martiri prende ispirazione da quel tragico evento, non solo per fare memoria di quanti lungo i secoli hanno immolato la propria vita proclamando la Buona Notizia, ma anche per affermare la consapevolezza che la missione, in quando donazione, è sempre comunque espressione dell’amore misericordioso di Dio.

Dal punto di vista dei significati, sono molteplici le declinazioni di questa Giornata di preghiera e digiuno. È sufficiente riflettere su quanto sta avvenendo nell’Africa Subsahariana, dove un numero indicibile di persone soffrono pene inenarrabili, espressione eloquente della cultura dello «scarto» stigmatizzata in più circostanze da Papa Francesco. Al cospetto di tanta umanità dolente che viene immolata sull’altare dell’egoismo umano, non è lecito stare alla finestra a guardare.

Per dirla con le mistiche parole di Paul Claudel, «Cristo non è venuto a spiegare il dolore, ma a riempirlo della sua presenza». Ecco che allora la santità di queste eccellenze missionarie resta viva ed efficace nella capacità di estendere nel tempo e nello spazio, attraverso la discepolanza, il loro carisma a servizio degli ultimi, di coloro che sono vittime delle diseguaglianze nelle periferie geografiche ed esistenziali del nostro povero mondo.

È bene rammentare che, secondo i dati raccolti dall’agenzia missionaria Fides, nell’anno 2021 sono stati uccisi a livello planetario 22 missionari: 13 sacerdoti, 1 religioso, 2 religiose, 6 laici. Il numero più elevato di uccisioni si è registrato in Africa, dove sono stati assassinati 11 missionari (7 sacerdoti, 2 religiose, 2 laici).

Sono note le esitazioni o addirittura i pregiudizi di coloro che oggi considerano la missione circoscritta all’Italia. Eppure, per quanto sia evidente il deficit di testimonianza nei comportamenti più quotidiani, in parte per l’immobilismo di alcune tradizionali agenzie educative, vi è davvero bisogno di promuovere un sussulto di missionarietà, nella consapevolezza che essa rappresenta l’antidoto nei confronti dei processi devastanti di mondializzazione che penalizzano fortemente l’uomo e dunque lo stesso dettato evangelico. Non ignorando chi nella Chiesa inquina la testimonianza con scandali ingiustificabili, è comunque importante ricordare anche quanti svolgono il loro apostolato nei Paesi del Sud del mondo, parafrasando la prima Lettera di Pietro, «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3,15).

A questo proposito il continente africano ci offre delle figure straordinarie su cui riflettere e pregare. Basti pensare all’eroico sacrificio dei sette monaci trappisti di Nostra Signora dell’Atlante a Tibhirine, in Algeria. Nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996, un commando armato formato da una ventina di uomini fece irruzione nel monastero sequestrando i religiosi di nazionalità francese. Un mese dopo l’atto criminale venne rivendicato da Djamel Zitouni, leader del Gruppo islamico armato (Gia), tramite un comunicato in cui proponeva al governo di Parigi uno scambio di prigionieri.

Il mese successivo, un secondo comunicato del gruppo terroristico annunciava la morte dei religiosi: «Abbiamo tagliato la gola ai monaci». Era il 21 maggio 1996. Nove giorni dopo vennero ritrovati i corpi. Al loro sacrificio è stato dedicato un film uscito nel 2010 dal titolo Uomini di Dio (Des hommes et des dieux), diretto da Xavier Beauvois. Il titolo originale, tradotto letteralmente «Uomini e dèi», si riferisce a una citazione biblica presentata all’inizio della pellicola: «Io ho detto: “Voi siete dèi, siete tutti figli dell’Altissimo, ma certo morirete come ogni uomo”» (Sal 82.6-7). Il film, un autentico capolavoro, ha vinto il Gran premio speciale della giuria al 63º Festival di Cannes.

Altra figura straordinaria è quella di monsignor Pierre Lucien Claverie, vescovo di Orano, ucciso ad Algeri il 1º agosto del 1996, il quale nonostante le minacce dell’islamismo estremista aveva continuato a visitare le comunità cristiane, incoraggiando i fedeli a operare per la pace. Stava rientrando da una cerimonia in ricordo dei sette monaci trappisti di Nostra Signora dell’Atlante, quando perse la vita assieme al suo autista.

Un ordigno venne fatto esplodere nel cortile del vescovado con un congegno a distanza. La sua spiccata sensibilità nel dialogo con il mondo islamico lo aveva portato a ricoprire l’incarico di membro del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. Inoltre egli aveva contribuito alla creazione della prima Lega algerina per i diritti umani e non esitava a prendere posizione sui problemi della società, oltre che della giustizia e dei diritti delle donne.

A differenza di quanto era accaduto per i monaci di Tibhirine, l’attentato contro monsignor Claverie non è mai stato rivendicato. La matrice appare comunque chiara: un gesto contro il riavvicinamento tra Algeria e Francia, che la visita ufficiale dell’allora ministro degli Esteri francese Hervé de Charette veniva a riconfermare proprio in quel giorno. Ed è insieme a lui che il vescovo di Orano era andato a rendere omaggio alle tombe dei monaci uccisi. Ma i cristiani non erano i soli a morire in Algeria. Lo ricordava frequentemente monsignor Claverie, invitando i missionari e le missionarie a restare: «Anche se volessimo partire, non potremmo più farlo. Il nostro sangue si è mescolato».

Lo ricordò allora il cardinale Bernardin Gantin prefetto della Congregazione per i vescovi, celebrando le esequie funebri in rappresentanza di Giovanni Paolo ii : «La sua morte è tragica. Essa va ad aggiungersi a quella dei diciotto religiosi che figurano sulle pagine di questo martirologio moderno. Essa si aggiunge anche a quella delle centinaia di algerini che muoiono quasi ogni giorno in questo Paese lacerato dalla violenza che nessuna causa saprebbe giustificare. E tanto meno la religione». Monsignor Claverie e compagni martiri, conosciuti anche semplicemente come Martiri d’Algeria (un gruppo di diciannove persone uccise in Algeria tra il 1994 e il 1996) sono stati beatificati l’8 dicembre 2018 a Orano e tra loro figurano anche i monaci trappisti di Tibhirine.

Sempre in Africa, le Chiese hanno a volte sperimentato un vero e proprio stato persecutorio per essersi schierate apertamente in difesa dei diritti umani, come espressione qualificata della società civile; una sorta di forza d’interposizione pacifica tra governativi e ribelli. Straordinario l’esempio di monsignor Christophe Munzihirwa, arcivescovo martire di Bukavu, nell’est tormentato della Repubblica Democratica del Congo (ex Zaire), il quale denunciò fino alla fine le vessazioni perpetrate contro i civili dai militari rwandesi. Venne freddato la sera del 29 ottobre 1996 con un proiettile alla nuca. Le esequie si tennero il 31 ottobre 1996, lo stesso giorno in cui vennero uccisi quattro missionari spagnoli di Bugobe appartenenti alla congregazione dei Fratelli maristi delle scuole: Servando Mayor García, Julio Rodríguez Jorge, Miguel Ángel Isla Lucio e Fernando de la Fuente. Monsignor Munzihirwa venne sepolto presso l’ingresso principale della cattedrale di Nostra Signora della Pace a Bukavu. La sua fede e quella di tanti altri martiri congolesi, ugandesi e di altre nazioni africane segna inequivocabilmente, in una prospettiva evangelica, la «vittoria dei vinti».

di Giulio Albanese