L’omelia del Papa durante la Messa per i 400 anni della canonizzazione di Ignazio di Loyola, Francesco Saverio, Teresa di Gesù, Filippo Neri e Isidoro l’Agricoltore

Come stiamo portando
nella preghiera
la guerra in corso?

 Come stiamo portando nella preghiera la guerra in corso?  QUO-060
14 marzo 2022

Nel pomeriggio di sabato 12 marzo è stata celebrata — nella chiesa del Santissimo Nome di Gesù a Roma — la santa messa, alla presenza di Papa Francesco, in occasione del iv centenario della canonizzazione di Ignazio di Loyola, Francesco Saverio, Teresa di Gesù, Filippo Neri e Isidoro l’Agricoltore. La celebrazione è stata presieduta da padre Arturo Sosa Abascal, preposito generale della Compagnia di Gesù. Ecco l’omelia pronunciata dal Papa.

Il Vangelo della Trasfigurazione che abbiamo ascoltato riporta quattro azioni di Gesù. Ci farà bene seguire ciò che compie il Signore, per trovare nei suoi gesti le indicazioni per il nostro cammino.

Il primo verbo — la prima di queste azioni di Gesù — è prendere con sé: Gesù, dice il testo, «prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni» (Lc 9, 28). È Lui che prende i discepoli, ed è Lui che ci ha presi accanto a sé: ci ha amati, scelti e chiamati. All’inizio c’è il mistero di una grazia, di un’elezione. Non siamo stati anzitutto noi a prendere una decisione, ma è stato Lui a chiamarci, senza meriti nostri. Prima di essere quelli che hanno fatto della vita un dono, siamo coloro che hanno ricevuto un dono gratuito: il dono della gratuità dell’amore di Dio. Il nostro cammino, fratelli e sorelle, ha bisogno di ripartire ogni giorno da qui, dalla grazia originaria. Gesù ha fatto con noi come con Pietro, Giacomo e Giovanni: ci ha chiamati per nome e ci ha presi con sé. Ci ha presi per mano. Per portarci dove? Al suo monte santo, dove già ora ci vede per sempre con Lui, trasfigurati dal suo amore. Lì ci conduce la grazia, questa grazia primaria, primigenia. Allora, quando proviamo amarezze e delusioni, quando ci sentiamo sminuiti o incompresi, non perdiamoci in rimpianti e nostalgie. Sono tentazioni che paralizzano il cammino, sentieri che non portano da nessuna parte. Prendiamo invece in mano la nostra vita a partire dalla grazia, dalla chiamata. E accogliamo il regalo di vivere ogni giorno come un tratto di strada verso la meta.

Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni: il Signore prende i discepoli insieme, li prende come comunità. La nostra chiamata è radicata nella comunione. Per ripartire ogni giorno, oltre al mistero della nostra elezione, occorre far rivivere la grazia di essere stati presi nella Chiesa, nostra santa Madre gerarchica, e per la Chiesa, nostra sposa. Siamo di Gesù, e lo siamo come Compagnia. Non stanchiamoci di chiedere la forza di costruire e custodire la comunione, di essere lievito di fraternità per la Chiesa e per il mondo. Non siamo solisti in cerca di ascolto, ma fratelli disposti in coro. Sentiamo con la Chiesa, respingiamo la tentazione di inseguire successi personali e di fare cordate. Non lasciamoci risucchiare dal clericalismo che irrigidisce e dalle ideologie che dividono. I Santi che ricordiamo oggi sono stati dei pilastri di comunione. Ci ricordano che in Cielo, nonostante le nostre diversità di caratteri e di vedute, siamo chiamati a stare insieme. E se saremo per sempre uniti lassù, perché non cominciare fin da ora quaggiù? Accogliamo la bellezza di essere stati presi insieme da Gesù, chiamati insieme da Gesù. Questo è il primo verbo: prese.

Il secondo verbo: salire. Gesù «salì sul monte» (v. 28). La strada di Gesù non è in discesa, è un’ascesa. La luce della trasfigurazione non arriva in pianura, ma dopo un cammino faticoso. Per seguire Gesù bisogna dunque lasciare le pianure della mediocrità e le discese della comodità; bisogna lasciare le proprie abitudini rassicuranti per compiere un movimento di esodo. Infatti, salito sul monte, Gesù parla con Mosè ed Elia proprio «del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme» (v. 31). Mosè ed Elia erano saliti sul Sinai od Oreb dopo due esodi nel deserto (cfr. Es 19; 1 Re 19); ora parlano con Gesù dell’esodo definitivo, quello della sua pasqua. Fratelli e sorelle, solo la salita della croce conduce alla meta della gloria. Questa è la strada: dalla croce alla gloria. La tentazione mondana è ricercare la gloria senza passare dalla croce. Noi vorremmo vie note, diritte e spianate, ma per trovare la luce di Gesù occorre continuamente uscire da sé stessi e salire dietro di Lui. Il Signore che, come abbiamo ascoltato, dall’inizio «condusse fuori» Abramo (Gen 15, 5), invita anche noi a uscire e salire.

Per noi gesuiti l’uscita e la salita seguono un percorso specifico, che il monte ben simboleggia. Nella Scrittura la cima dei monti rappresenta l’estremità, il limite, il confine tra terra e cielo. E noi siamo chiamati a uscire per andare proprio lì, ai confini tra terra e cielo, lì dove l’uomo “affronta” Dio con fatica; a condividere la sua ricerca scomoda e il suo dubbio religioso. Lì dobbiamo essere e per farlo occorre uscire e salire. Mentre il nemico della natura umana vuole convincerci a tornare sempre sugli stessi passi, quelli della ripetitività sterile, della comodità, del già visto, lo Spirito suggerisce aperture, dà pace senza lasciare mai in pace, invia i discepoli agli estremi confini. Pensiamo a Francesco Saverio.

E mi viene in mente che per fare questa strada, questo cammino, bisogna lottare. Pensiamo al povero vecchio Abramo: lì, con il sacrificio, lottando contro gli avvoltoi che volevano mangiarsi l’offerta (cfr. Gen 15, 7-11). E lui, con il bastone, li cacciava via. Il povero vecchio. Guardiamo questo: lottare per difendere questo cammino, questa strada, questa nostra consacrazione al Signore.

Il discepolo di ogni ora si trova di fronte a questo bivio. E può fare come Pietro, che mentre Gesù parla di esodo, dice: «È bello essere qui» (v. 33). C’è sempre il pericolo di una fede statica, “parcheggiata”. Ho paura delle fedi “parcheggiate”. Il rischio è quello di ritenersi discepoli “per bene”, che in realtà non seguono Gesù ma restano fermi, passivi e, come i tre del Vangelo, senza accorgersi si assopiscono e dormono. Anche nel Getsemani, questi stessi discepoli, dormiranno. Pensiamo, fratelli e sorelle, che per chi segue Gesù non è tempo di dormire, di lasciarsi narcotizzare l’anima, di farsi anestetizzare dal clima consumistico e individualistico di oggi, per cui la vita va bene se va bene a me; per cui si parla e si teorizza, ma si perde di vista la carne dei fratelli, la concretezza del Vangelo. Un dramma del nostro tempo è chiudere gli occhi sulla realtà e girarsi dall’altra parte. Santa Teresa ci aiuti a uscire da noi stessi e a salire sul monte con Gesù, per accorgerci che Lui si rivela anche attraverso le piaghe dei fratelli, le fatiche dell’umanità, i segni dei tempi. Non avere paura di toccare le piaghe: sono le piaghe del Signore.

Gesù salì sul monte, dice il Vangelo, «a pregare» (v. 28). Ecco il terzo verbo, pregare. E «mentre pregava — prosegue il testo —, il suo volto cambiò d’aspetto» (v. 29). La trasfigurazione nasce dalla preghiera. Chiediamoci, magari dopo tanti anni di ministero, che cos’è oggi per noi, che cos’è oggi per me, pregare. Forse la forza dell’abitudine e una certa ritualità ci hanno portati a credere che la preghiera non trasformi l’uomo e la storia. Invece pregare è trasformare la realtà. È una missione attiva, un’intercessione continua. Non è distanza dal mondo, ma cambiamento del mondo. Pregare è portare il palpito della cronaca a Dio perché il suo sguardo si spalanchi sulla storia. Cos’è per noi pregare?

E ci farà bene oggi domandarci se la preghiera ci immerge in questa trasformazione; se getta una luce nuova sulle persone e trasfigura le situazioni. Perché se la preghiera è viva, “scardina dentro”, ravviva il fuoco della missione, riaccende la gioia, provoca continuamente a lasciarci inquietare dal grido sofferente del mondo. Chiediamoci: come stiamo portando nella preghiera la guerra in corso? E pensiamo alla preghiera di San Filippo Neri, che gli dilatava il cuore e gli faceva aprire le porte ai ragazzi di strada. O a Sant’Isidoro, che pregava nei campi e portava il lavoro agricolo nella preghiera.

Prendere in mano ogni giorno la nostra chiamata personale e la nostra storia comunitaria; salire verso i confini indicati da Dio uscendo da noi stessi; pregare per trasformare il mondo in cui siamo immersi. C’è infine il quarto verbo, che compare all’ultimo versetto del Vangelo odierno: «Restò Gesù solo» (v. 36). Restò Lui, mentre tutto era passato ed echeggiava solo “il testamento” del Padre: «Ascoltatelo» (v. 35). Il Vangelo termina riportandoci all’essenziale. Siamo spesso tentati, nella Chiesa e nel mondo, nella spiritualità come nella società, di far diventare primari tanti bisogni secondari. È una tentazione di ogni giorno far diventare primari tanti bisogni secondari. Rischiamo, in altre parole, di concentrarci su usi, abitudini e tradizioni che fissano il cuore su ciò che passa e fanno dimenticare quel che resta. Quanto è importante lavorare sul cuore, perché sappia distinguere ciò che è secondo Dio, e rimane, da quello che è secondo il mondo, e passa!

Cari fratelli e sorelle, il santo padre Ignazio ci aiuti a custodire il discernimento, nostra eredità preziosa, tesoro sempre attuale da riversare sulla Chiesa e sul mondo. Esso permette di “vedere nuove tutte le cose in Cristo”. È essenziale, per noi stessi e per la Chiesa, perché, come scriveva Pietro Favre, «tutto il bene che si possa realizzare, pensare od organizzare, si faccia con buon spirito e non con quello cattivo» (Memorial, Paris 1959, n. 51). Così sia.


Quella borsa cucita come segno di pace


Un semplice borsa di tela colorata, realizzata con tante stoffe africane cucite insieme  nel periodo della pandemia da dieci donne in fuga da guerre e persecuzioni,  accolte dal Centro Astalli. Ecco il dono consegnato personalmente nelle mani di Papa Francesco al termine della celebrazione da tre di queste donne. Quella borsa è «un segno di  speranza» che arriva proprio «da chi ha conosciuto il male della guerra e per questo s’impegna ogni giorno per la pace» ha affermato padre Arturo Sosa Abascal, preposito generale della Compagnia di Gesù. A Francesco le donne hanno presentato anche il catalogo della mostra fotografica Volti al futuro che racconta i quarant’anni di servizio del Centro Astalli, con i ritratti e i pensieri dei rifugiati accolti. E altre donne hanno letto le intenzioni della preghiera dei fedeli, nelle loro lingue. Molte di loro sono scappate da guerre e persecuzioni. Alcune sono state vittime di tortura e violenza e, tra di loro, c’è anche chi ha vissuto l’esperienza del carcere in Libia e del naufragio in mare.

Padre Sosa ha presieduto la concelebrazione eucaristica, alla quale era presente il Pontefice che ha letto l’omelia. Tra i  numerosi concelebranti anche il cardinale arcivescovo di Madrid, alcuni cardinali e vescovi e i rappresentanti  della Compagnia di Gesù, dei Carmelitani scalzi, dei Carmelitani e della Congregazione dell’oratorio, per “abbracciare” i carismi dei cinque santi.

All’offertorio è stato eseguito un canto tradizionale orientale e due religiose missionarie della Carità hanno portato i doni all’altare.

Al termine della celebrazione, padre Sosa ha rinnovato l’impegno nell’anno ignaziano a «chiedere con insistenza la grazia di vedere nuove tutte le cose in Cristo, in questo tempo pieno di sorprese». Proprio «la memoria dei 400 anni della canonizzazione di persone tanto diverse tra loro conferma in questa nuova possibilità di guardare il mondo e la storia», con il Signore «continua ad accompagnare ogni persona e la sua Chiesa in questa completa e profonda conversione interiore». 

«A nome della Compagnia di Gesù e di tutta la famiglia ignaziana», il preposito generale ha ringraziato il Papa «per la presenza in questa celebrazione, un altro segno del suo costante e premuroso accompagnamento nella nostra vita» di servizio nella Chiesa. Con l’assicurazione di chiedere «tanta grazia  per portare avanti il suo ministero petrino»,  alla vigilia del nono anniversario della sua elezione come vescovo di Roma.

Dopo la benedizione impartita dal Papa, il cardinale arcivescovo di Madrid e i rappresentanti delle famiglie religiose  hanno recitato una preghiera di ringraziamento davanti all’altare di sant’Ignazio, dove erano collocate anche le reliquie degli altri quattro santi.

Il servizio liturgico è stato prestato dagli studenti del Collegio internazionale del Gesù (il cui coro ha eseguito i canti), con i diaconi della Congregazione dell’oratorio. 

Prima di far rientro in Vaticano, il Papa ha pregato davanti alla tomba di padre Arrupe.