Hic sunt leones

La povertà
ricchezza dei popoli

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11 marzo 2022

Nel magistero di Papa Francesco è sempre più chiaro che il cosiddetto homo oeconomicus e nel suo complesso la società a cui egli appartiene a livello planetario, secondo le logiche del liberismo, incarnino un’idea della ricchezza che ha radicalmente bisogno di redenzione. In effetti, l’avvento del sistema capitalistico ha determinato un graduale passaggio da una concezione morale inerente il «rapporto tra gli uomini» a un’altra legata al «rapporto tra uomini e cose». Questo mutamento è essenziale per comprendere il nostro tempo e segna il passaggio da un’etica prevalentemente deontologica ad un’etica utilitaristica.

Il problema di fondo è che, prescindendo da valutazioni ideologiche, vi è sempre più un appiattimento sulle categorie economiche nel dibattito politico e sociale, con la conseguente progressiva riduzione delle dimensioni su cui si giudica ogni aspetto della vita e della società. Dinanzi all’intollerabilità della situazione che si è venuta delineando, in un video diffuso dalla Rete mondiale di preghiera per il mese di maggio 2021, Papa Francesco si è sentito in dovere di richiamare i credenti e i laici con queste parole: «Quanto è lontano il mondo della grande finanza dalla vita della maggior parte delle persone! La finanza, se non viene regolamentata, diventa pura speculazione animata da politiche monetarie. Questa situazione è insostenibile. È pericolosa. Per evitare che i poveri tornino a pagarne le conseguenze, bisogna regolamentare in modo rigido la speculazione finanziaria». È l’ammissione, in fondo, dell’incapacità, da parte delle istituzioni internazionali preposte al controllo, di contrastare l’impudenza degli speculatori e della sottomissione sistemica alla cosiddetta de-regulation e al laissez faire più spregiudicato.

A questo proposito è utile segnalare il saggio dell’intellettuale beninese Albert Tévoédjrè dal titolo «La Pauvreté, richesse des peuples» pubblicato nel 1978 e tradotto in italiano per i tipi dell’Editrice missionaria italiana (Emi) nel 1982 con il titolo «La povertà ricchezza dei popoli». Il titolo allora fece non poco scalpore e se fosse oggi ancora in circolazione ne farebbe altrettanto, anche perché nell’immaginario nostrano la povertà è sempre sinonimo di una condizione infelice. Forse sì, se non la si può scegliere, ma una vita «povera» non è sempre una vita «miserabile». Infatti, la povertà, ha paradossalmente un ampio spettro di significati. Nella stessa etimologia della parola sembra avanzarsi un giudizio sulla condizione determinata dall’esclusione sociale. Infatti, il termine deriva, con ogni probabilità, dal latino pauper come contrazione di pauca (poco) e pariens (che produce). Il povero, dunque, è colui che produce poco e quindi implicitamente è soggetto all’emarginazione. Sta di fatto che, fenomenologicamente parlando, la povertà si riferisce a quella condizione di singole persone o addirittura collettività umane che si trovano ad avere, per ragioni di ordine economico, un accesso limitato (o del tutto mancante nel caso della condizione di miseria) a beni essenziali e primari, d’importanza vitale, come il cibo o il vestiario. È quanto si evince dalle statistiche degli istituti internazionali preposti alle misurazioni sulla qualità della vita, che considerano «povero» solo chi ha un reddito di pochi dollari al giorno. Un’astrazione piuttosto superficiale, centrata com’è sui consumi e un parametro finanziario che alla prova dei fatti genera l’esclusione sociale.

Scriveva Tévoédjrè: «Per me la povertà non è miseria. È uno stile di vita che non è una vita di opulenza. Povero significa “chi ha solo il necessario”, “chi ha il necessario ma non il superfluo”. Se povertà significa accontentarsi del poco, dell’essenziale, allora la povertà è ricchezza. Ma se povertà significa miseria, allora deve essere combattuta e sradicata. Quando diciamo, ad esempio, nei circoli cristiani, che qualcuno fa voto di povertà, ciò non significa che si impegni a essere miserabile: vuole vivere di poco, di essenziale. Se ogni popolo potesse fare l’opzione della povertà, quale progresso sarebbe per l’umanità!». E continuava ancora l’autore: «Percepire l’esistenza e concepire lo sviluppo attraverso la spirale senza fine nell’acquisto di beni di dubbia utilità o inutili, in una ricerca obbligata e illimitata, ecco l’assurdo».

Se da una parte occorre considerare il contesto storico nel quale Tévoédjrè scrisse il suo saggio, quello del secolo scorso segnato profondamente dalla guerra fredda, egli ebbe il merito di evidenziare nella sua analisi l’assurdità che espone anche oggi la società planetaria alla «tragedia del senso perduto» rispetto ai valori della vita. Solo la povertà, intesa per l’autore non certo come mistica della miseria, ma come affermazione della condivisione, potrebbe sanare i popoli partendo dalla considerazione «che ci sono bisogni essenziali per una popolazione. Così come i dipendenti hanno diritto a un salario minimo professionale garantito, così ogni comunità deve avere un minimo sociale comune garantito, al di sotto del quale conduce una vita marginale. Questo minimo comprende un minimo di educazione, un minimo di benessere, un minimo di salute, che consente a tutti di diventare un agente di sviluppo».

Tévoédjrè, che si è spento nel 2019 all’età di 89 anni, sosteneva dunque che la povertà, intesa come sobrietà nell’essenziale, è un diritto, che uno Stato che si fregia di questo appellativo, dovrebbe poter garantire ai propri cittadini. «Lo Stato — scriveva — deve poter contribuire a garantire questo minimo sociale comune, quel poco assolutamente necessario che ogni comunità deve acquisire». C’è da considerare che Tévoédjrè da giovane militò nell’Unione degli studenti cattolici africani (Ueca) e nella Federazione degli studenti dell’Africa nera in Francia (Feanf).

Diversi furono gli incarichi che egli ricoprì nel corso della vita sia nell’ambito universitario (Francia, Stati Uniti, Costa d’Avorio…), come anche nelle istituzioni internazionali. Quando scrisse il saggio sulla povertà esercitava l’incarico di direttore dell’Istituto internazionale degli studi sociali ed era direttore aggiunto dell’Ufficio internazionale del lavoro (Ilo), con base a Ginevra. A metà degli anni ‘80, fondò il Centro panafricano per le prospettive sociali (Cpps), dedicato alla ricerca, alla formazione e all’attuazione di programmi nello sviluppo socioeconomico in Africa. Nel 1990 divenne relatore della Conferenza nazionale delle forze vive della nazione beninese, che porterà a un sistema multipartitico. Alla fine degli anni ‘90 fu anche ministro per la Pianificazione e la riabilitazione economica del Benin e dal febbraio 2003 al febbraio 2005 ricoprì il ruolo di Rappresentante speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan per assistere i protagonisti della crisi in Costa d’Avorio nell’ambito delle strategie di attuazione dell’accordo di Linas-Marcoussis.

Jean Ziegler, che fu Relatore speciale sul diritto all’alimentazione, presso il Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani dal 2000 al 2008 scrisse di lui su Le Monde diplomatique: «Tévoédjrè apre la strada a un dibattito affascinante: quello che esplora le possibilità di una liberazione negoziata dei Paesi dominati e della trasformazione non capitalista delle società autoctone africane». Le pagine del libro su «La povertà ricchezza dei popoli» esprimono quel dissenso di Tévoédjrè rispetto all’odierno sistema economico di cui Papa Francesco in più circostanze si è fatto portavoce, affermando che «Questa economia uccide». Esse manifestano una visione alternativa, un progetto inedito che rivaluti l’economia reale, e che riconosca nei fatti la centralità del persona umana creata ad immagine e somiglianza di Dio. La proposta finale di questo saggio, incentrata su un nuovo contratto di solidarietà, basato sulla parità effettiva dei contraenti, reso vincolante da un patto giuridico internazionale, è ancora oggi tutto da scoprire, tutto da recepire, tutto da approfondire e da realizzare.

Nella prefazione, Dom Hélder Câmara, compianto arcivescovo di Olinda e Recife (Brasile) scrisse: «Stiamo ancora sognando, in piena utopia leggendo questo libro? Da noi il popolo canta: Quando uno sogna da solo, è solo un sogno. Quando si sogna insieme, è la realtà che comincia».

di Giulio Albanese