La storia del villaggio che combatte contro l’ex presidente Kabila

Mbobero, una battaglia in nome della libertà

 Mbobero, una battaglia  in nome della libertà  QUO-056
09 marzo 2022

Questa è la storia di una battaglia epica: gli abitanti di un piccolo villaggio contro un potentissimo, l’ex presidente della Repubblica Democratica del Congo, Joseph Kabila. Come finirà non si sa, ma combattere è l’unico modo per avere la possibilità di vincere. E ha un valore profondo, un significato che travalica il fatto in sé.

Ci troviamo a Mbobero, un villaggio che sorge in parte sull’ex piantagione di un colono belga, a 10 km circa dalla città di Bukavu, capoluogo del Sud Kivu, nella parte orientale del Paese. Nelle casette di fango, legno o mattoni sparse sulle dolci colline che costeggiano il lago Kivu, vivono tranquille 10.000 persone. Si tratta per lo più di contadini che, per il loro fabbisogno alimentare, coltivano manioca, fagioli e altri legumi. Il 30 gennaio 2016, la pace del villaggio viene bruscamente interrotta dall’irruzione di una pattuglia di militari inviati da Kabila, allora ancora presidente della Repubblica, e capeggiati da sua moglie, Olive Lembe. Rivendicando il possesso della concessione ottenuta qualche anno prima, l’esercito invade il Centro Ospedaliero Neurochirurgico proprio mentre è in corso un intervento cesareo. La squadra incaricata della demolizione stacca la corrente costringendo il chirurgo a continuare l’operazione all’aperto, sul prato. Troppo strapazzo per il piccolo, che muore subito dopo. Nel frattempo, i 29 ricoverati, spaventati, fuggono, mettendo a rischio la propria vita. Dopo aver distrutto il nosocomio, una struttura all’avanguardia, gli incursori demoliscono con inaudita violenza 45 case e una chiesa. Da quel momento, i pacifici abitanti iniziano una protesta, sostenuti da La Nouvelle Dynamique de la Société Civile, un’organizzazione di difesa dei diritti umani e della democrazia che opera con il sostegno di Tournons la Page International e di Secours Catholique di Caritas France. Mobilitazioni, marce, sit-in, lettere alle autorità con la documentazione filmata dei soprusi, ma non succede niente. Anzi. Nel febbraio 2018, gli uomini di Kabila tornano e radono al suolo 247 case, incendiando quelle che resistono. Vorrebbero distruggere anche la scuola, ma i cittadini fanno cordone per impedirlo. Come se non bastasse, l’ex presidente costruisce pian piano un muro invalicabile per separare la “sua” concessione, che, nel tempo, si è estesa dai 200 ettari iniziali a quasi 600 ettari, dalla parte rimanente, impedendo alla gente di coltivare i terreni e condannandola, così, alla povertà.

Il perché di tanto interesse da parte di Kabila non è chiaro. Certo è che la collina su cui sorge il villaggio si affaccia sia su Bukavu sia su Cyangugu, in Rwanda, e rappresenta, perciò, un punto militare strategico. Il capoluogo del Sud Kivu, inoltre, negli ultimi anni ha subito una forte pressione demografica, accogliendo migliaia di sfollati, e Mbobero, che si trova a pochi chilometri dalla città, appare un luogo comodo e piacevole in cui trasferirsi. Fatto sta che ora circa 2500 persone, senza più una casa, vivono in famiglie di accoglienza o in capanne di fortuna costruite sui terreni di vicini e familiari. Molti bambini hanno abbandonato la scuola e passano il loro tempo sulla strada. Una situazione che ha frantumato i legami sociali e familiari, accrescendo in maniera notevole la miseria e la sofferenza di queste popolazioni già povere, che vivono con meno di un dollaro al giorno. «Questo piccolo villaggio è diventato una specie di Guantánamo, dove militari e poliziotti commettono abusi e violazioni gravi dei diritti umani», racconta Jean-Chrysostome Kijana, presidente de La Nouvelle Dynamique. «Alcuni giovani sono stati arrestati senza ragione, torturati e sottoposti ai lavori forzati; donne giovani e anziane sono state vittime di violenza sessuale; persino un bambino di 11 anni ha subito uno stupro da parte di un militare di Kabila». Ci sono stati anche quattro omicidi. L’ultimo è avvenuto il 6 dicembre 2020, quando un sergente dell’esercito congolese, di guardia alla concessione, ha ucciso con il suo kalashnikov Patrick Irenge, 33 anni, dopo una disputa riguardo a un telefonino. Grazie alla ribellione dei cittadini, questo omicidio non è rimasto impunito come i precedenti. Al termine di un processo molto pubblicizzato dai media e seguito in tutto il Paese, il militare è stato condannato all’ergastolo e lo Stato congolese al pagamento dei danni alle parti civili, dell’ordine di 50.000 dollari. «Ma il risarcimento alla vedova non è arrivato e non arriverà mai», commenta Kijana, che, per la sua attività, nel 2018 ha dovuto rifugiarsi in Uganda per undici mesi. La moglie e gli otto figli sono rimasti a Bukavu. «Ho vissuto nell’insicurezza totale e nella paura che potesse succedere qualcosa alla mia famiglia», dice l’uomo che, però, non demorde. Attraverso gli avvocati di Tournons la Page International, il 24 giugno 2020 è stata deposta una denuncia per violazione dei diritti dell’uomo e per crimini contro l’umanità nei confronti di Joseph Kabila alla Procura generale presso la Corte di Cassazione, dove l’ex presidente, divenuto senatore a vita, può essere giudicato.

Il procedimento si è bloccato a causa di forti influenze politiche «ma — afferma Kijana — noi non ci arrendiamo. Anche l’ambasciatore Luca Attanasio sosteneva la nostra lotta. Era indignato per la grave ingiustizia di cui sono vittime gli abitanti di Mbobero e voleva aiutarli. Il suo assassinio è stato uno shock ma noi continuiamo a combattere. Il nostro obiettivo è portare Kabila davanti alla Corte Internazionale». L’ultimo sopruso si è verificato il 27 ottobre scorso, quando i militari di Kabila hanno sgomberato violentemente le tredici famiglie rimaste dentro al recinto.

In questi giorni si stanno facendo i preparativi per la commemorazione del sesto anniversario dalle prime demolizioni, per far sapere all’opinione pubblica locale, nazionale e internazionale, che «la sofferenza e il calvario continuano e che, malgrado tutto, noi continuiamo a lottare “a mani nude” davanti ai potenti”», dice Kijana, citando il titolo del libro che sta scrivendo. Si organizzerà anche una conferenza pubblica al centro di Bukavu, con la proiezione dei due video realizzati dall’organizzazione Nouvelle Dynamique: Mbobero, la raison du plus fort est toujours la meilleure (La ragione del più forte è sempre la migliore) e Ces vérités cachées sur Mbobero(Le verità nascoste su Mbobero). Si stamperanno magliette con messaggi di solidarietà e si farà una sottoscrizione per sostenere i bambini più piccoli e le persone anziane del villaggio. Ci saranno difensori dei diritti umani, religiosi, artisti e cantanti. E nel Paese risuoneranno le note dell’inno del villaggio: Amani (Pace), Mbobero! «Mbobero dei nostri antenati, vogliamo andare avanti, Mbobero dei nostri antenati, piangiamo cercando la pace», recita un verso. Un profluvio di energie per una battaglia impari. Jean Chrysostome e gli altri ne sono consapevoli ma non intendono mollare. Per loro questa vicenda ha anche un valore etico. «Si tratta di una questione pedagogica, un insegnamento per i nostri giovani a non cedere mai di fronte alla prepotenza e alle ingiustizie».

di Marina Piccone