La buona Notizia

Luce da condividere

08 marzo 2022

La scena della trasfigurazione è sempre così piena di luce, che non è difficile comprendere il desiderio di Pietro: tre capanne per trattenere quella bellezza e quella memoria improvvisamente irradiate da Gesù. Per Pietro, Giovanni e Giacomo, il maestro ha un’espressione affascinante mai vista prima. È un’esperienza forte che viene subito inquadrata nella loro stessa storia religiosa: Mosè ed Elia richiamano infatti la Legge e i Profeti, testi-cardine della spiritualità ebraica.

Tuttavia il desiderio di Pietro, così naturale, tradisce incomprensione e distanza. Le parole sono quelle di chi «non sa quello che dice» e che si è appena svegliato da un sonno che lo ha tenuto lontano dal senso degli eventi. Tutti e tre i discepoli, comunque sono «oppressi dal sonno». Quel sonno ha qualcosa di malinconico: assomiglia molto al sonno della depressione più che a quello della stanchezza, perché nasce dall’impossibilità di stare al presente: Gesù sta per soccombere alla violenza e alla morte, fuori dalle mura di Gerusalemme. Chi gli è vicino prima chiude gli occhi e poi spera di fermare l’istante per proteggerlo dal dramma ormai incombente.

Questo brano — tessuto attorno al sonno, alle parole sbagliate e al silenzio di chi ha rinunciato a comunicare — trasuda paura. Nella paura, la lingua perde il proprio equilibrio e cerca una pace esclusiva, da godere nella separazione dal mondo.

In questo momento storico anche noi sperimentiamo lo stesso disorientamento e la stessa paura, perché la guerra e la violenza sono drammaticamente reali e vicine, mentre il Cristo risorto non ha smesso di essere quell’uomo nudo e inerme da non difendere con la spada. Ora le parole di pace si sono fatte impotenti, le preghiere rischiano di essere forme di godimento della luce che resta, mentre i discorsi politici oscillano tra diverse interpretazioni che tuttavia convergono su un punto: la violenza si ferma inevitabilmente con la forza. Forse è così, ma non è detto.

La scena della trasfigurazione spinge comunque in un’altra direzione: mai chiudere gli occhi sul dramma ma cercare sempre e comunque una luce da spartire insieme, fuori dalle nostre capanne. È così che si possono guardare gli eventi con gli occhi di Dio. Questo Dio parla la lingua di ogni madre, perché i suoi occhi accompagnano da sempre ciascuna vita, fin da quando essa si forma nel segreto di un grembo. È questa sapienza di vita che ora manca tragicamente.

Viene allora in mente una poesia di Wisława Szymborska, dedicata al Vietnam: «Donna, come ti chiami? — Non lo so. / Quando sei nata, da dove vieni? — Non lo so. / Perché ti sei scavata una tana sottoterra? — Non lo so. / Da quando ti nascondi qui? — Non lo so. / Perché mi hai morso la mano? — Non lo so. / Sai che non ti faremo del male? — Non lo so. / Da che parte stai? — Non lo so. / Ora c’è la guerra, devi scegliere. — Non lo so. / Il tuo villaggio esiste ancora? — Non lo so. / Questi sono i tuoi figli? — Sì» (Vietnam, Wisława Szymborska).

Nella poesia quel “sì” della madre, pronunciato in un mondo collassato nella violenza, è forse la luce trasfigurante che dobbiamo ora condividere e che può orientarci in un momento storico in cui la realtà si è fatta difficile da spiegare.

di Lucia Vantini