È in Vaticano l’icona sfigurata di Popeliv che oggi rappresenta l’anima del popolo dal quale è stata dipinta

C’è il volto di ogni bambino ucraino a “sostituire”
quel Volto cancellato
dalle brutture della storia

  C’è il volto di ogni bambino ucraino  a “sostituire” quel Volto cancellato dalle brutture della ...
05 marzo 2022

Padre Sebastian Dmytrukh non credeva ai propri occhi: a far da ripiano in un improbabile armadio dimenticato in un ripostiglio del campanile del villaggio ucraino di Popeliv era una splendida icona della Madonna Odigitria, dipinta tra il xvii e il xviii secolo.

Proprio in quell’icona devastata, sfregiata, in alcuni tratti cancellata, padre Sebastian riconobbe subito il suo popolo appena da sotto il tacco dello stivale sovietico. Monaco studita appena “riemerso”, agli inizi degli anni ‘90, dalla clandestinità delle “catacombe” ucraine del xx secolo, si era subito messo a girare quasi casa per casa per recuperare le icone, preziosi tesori di arte e di fede, nascoste alla meglio per sottrarle a distruzione sicura.

Ma non avrebbe mai immaginato di trovare, come ripiano in un armadio, un’icona che così bene — proprio perché maltrattata — rappresentasse la sua gente. E oggi la forza impressionante e attualissima che comunica l’icona viene riproposta in Vaticano, in particolare dai Musei Vaticani che la custodiscono dal 2004.

Attualissima, certo. Popeliv oggi è sulla strada dei profughi: si trova vicino a Ivano-Frankivsk, non lontano dai 4 confini con Slovacchia, Ungheria, Romania, Moldavia e, in fondo, non distante neppure dalla frontiera polacca: Lviv è a 160 km.

E così l’icona di Popeliv oggi “parla” e rappresenta più che mai il popolo ucraino che l’ha espressa riconoscendosi in quei lineamenti. Soprattutto in quelli più incerti e precari, com’è l’esperienza di essere profugo.

La prima cosa che padre Sebastian fece con l’icona tra le mani fu bussare alla porta di bravissimi e motivatissimi esperti per un meticoloso restauro. Ma ricevendo una sentenza inappellabile: alcune parti dell’icona erano irrimediabilmente cancellate. Per questo venne dipinta una copia dell’antica icona: come a dire, si rinasce ma sulle radici. Una copia perfetta, ma con un “particolare” che conta: il Volto del Bambino Gesù è stato dipinto liberamente — rifacendosi ai modelli dell’epoca — perché nell’originale è quasi del tutto raschiato.

Ma proprio in “quel Volto” — ora più che mai — c’è il volto di ogni bambino ucraino. Di ogni bambino che sta vivendo la pazzia della guerra.

Le due icone — l’originale e la copia — sono state esposte a lungo nella centralissima e prestigiosa Galleria d’arte di Lviv, a due passi dalla cattedrale armena la cui bellezza fa trattenere il fiato.

Poi ecco il gesto di svolta: le due icone sono state donate a san Giovanni Paolo ii durante la Divina Liturgia che ha celebrato a Lviv il 27 giugno 2001, a conclusione dello storico viaggio apostolico in Ucraina.

In un’intervista a «L’Osservatore Romano», in quell’occasione, padre Sebastian ebbe a riconoscere che «non si potrà mai recuperare ciò che è stato distrutto ma abbiamo il dovere di salvare ciò che è scampato allo scempio per far capire alle nuove generazioni qual è il patrimonio di fede che abbiamo ereditato».

È un fatto: in quell’icona, oltraggiata chissà come, oggi c’è (ancora e di più) la storia di un popolo. Non è un fatto del passato. Anzi. Ed è curioso — ma è solo una delle infinite contraddizioni di quel sistema — che mentre l’Unione Sovietica ordinava la distruzione di icone, costruiva «musei dell’ateismo» per esporle. Come a dire che Dio, la fede di un popolo che aveva creato quelle icone, era «archeologia». Ma anche in Ucraina ai tempi dell’Urss, ricordava padre Sebastain, i cristiani andavano nei musei per pregare e qualche guida credente riusciva persino a fare, con scaltrezza, «lezioni di catechismo». E oggi le icone sono lì, nelle cantine divenute bunker. E una è a un passo dal cuore del Papa.

di Giampaolo Mattei