Il significato del dialogo e della pace

Il perdono possibile

Tourists stand at the Mount of Olives overlooking Jerusalem's Old City and the Dome of the Rock in ...
01 marzo 2022

Mettersi dalla parte del nemico significa la volontà 
di capire l’altro: fermarsi e avere il coraggio di cambiare


Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento svolto sabato 12 febbraio al convegno Mondialità 2022, organizzato dall’arcidiocesi di Milano, dall’arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini. Il tema è il perdono, a partire dal  contesto israelo-palestinese, ma che in queste ore di grave tensione  ben interpreta un’esigenza globale di riconciliazione.

Pace e riconciliazione in Terra Santa sembrano ideali utopistici, lontani da ogni concreta possibilità di attuazione, ma dall’altra parte sono temi irrinunciabili, in attesa di improrogabili soluzioni. Questo paradosso è dovuto al fatto che la Terra Santa è il luogo cruciale in cui s’intrecciano tensioni ataviche, interessi politici, religioni e culture diverse. Il conflitto in Terra Santa non è fatto solo di violenza fisica, d’interventi armati e attentatori suicidi, ma è molto di più: è un modus pensandi et vivendi che permea la cultura e la mentalità delle persone. Per fare solo un esempio, nei libri di testo palestinesi di geografia, disciplina apparentemente neutrale, Israele è assente dalle carte geografiche, così come nei libri di testo israeliani la Palestina non esiste. Perciò, l’aspetto violento del conflitto è solo la punta di un iceberg, che ha dimensioni molto profonde.

Ma la Terra Santa non è solo terra di conflitti. Essa è anche la culla della nostra cultura occidentale e in gran parte anche di quella orientale. «Tutti là sono nati», recita il Salmo 87 (86): le nostre radici affondano in Terra Santa e quanto accade qui ha ripercussioni nel resto del mondo. Se da un lato, dunque, questa terra sembra essere senza speranza, essa rimane il luogo che nutre la speranza di ebrei, cristiani e musulmani. Diamo innanzitutto un breve sguardo al testo biblico su come sia stato inteso il perdono nella storia della rivelazione.

Per perdono(slicha), nell’Antico Testamento, si intende la decisione di non considerare più il peccato come ostacolo nella relazione interrotta (con Dio, tra gli uomini). È un atto che dipende dalla volontà di chi perdona e non da un’azione o gesto esterni, ed è inizialmente legato ad una richiesta di perdono da parte del peccatore/colpevole.

Il termine “peccatore” viene espresso letteralmente con: «colui che porta su di sé il peccato/la colpa». Nell’Antico Testamento una delle più antiche espressioni per indicare l’atto di perdonare è appunto «portare, assumere il peccato di un altro». Dio che perdona è Dio che porta, assume su di sé il peccato di chi lo ha commesso. Le traduzioni non possono sempre rendere questa idea e spesso traducono portare il peccato semplicemente con perdonare.

Perdonare, cioè «portare il peccato altrui», non significa però assumere anche le conseguenze del male commesso (pena, punizione), che spesso rimangono sulle spalle del peccatore perdonato. Mosè, ad esempio, viene perdonato per la sua incredulità, ma non entra nella Terra Promessa, così il popolo incredulo (cfr. Num cc. 13—14).

Vi è un’altra parola per indicare il perdono oltre a slicha, ed è kapparah. Quest’ultima, a differenza della precedente, è legata non solo ad una volontà, ma anche ad un gesto esterno preciso, spesso legato al culto. La kapparah si ottiene con i sacrifici del tempio, ad esempio, o attraverso un rituale simile ed è un atto compiuto generalmente attraverso mediatori (sacerdoti, profeti o altri). Con il tempo può diventare un gesto solo esteriore, slegato da una volontà sincera. La predicazione dei profeti sarà spesso contro questa forma di ipocrisia.

Nel periodo più tardivo, dopo i fallimenti delle monarchie israelite, dopo l’esilio e la catastrofe politica nazionale, vi è una nuova comprensione di perdono. I fallimenti nazionali e personali hanno portato lentamente alla comprensione che il perdono non può che essere il frutto della gratuità di Dio, perché l’uomo da solo non riesce ad essere fedele all’alleanza, ma passa da un fallimento all’altro.

È un passaggio importante, che prepara e introduce la predicazione di Gesù e la novità del perdono cristiano, che ha il suo cuore nella croce. Gesù porta su di sé, assume il peccato dell’umanità, è il redentore, che ci libera anche dal peccato e dalle sue conseguenze. È il modo in cui Dio ci ha perdonato una volta per tutte.

In conclusione: il perdono non è una cancellazione. Il peccato, la ferita, resta, ma — in un certo senso — viene assunta, condivisa. Perdonare significa accogliere su di sé il peccato altrui, decidere che quel peccato, quella colpa non interrompe la relazione.

La Bibbia, dunque, ci presenta la forma più alta di perdono, che è anche la più alta forma di giustizia.

Fare giustizia, nella Bibbia, significa mettere le cose in ordine secondo il disegno di Dio. Solo la misericordia di Dio, il Suo perdono, potrà, “pareggiare i conti” con l’uomo, fare cioè “giustizia”.

Il perdono ha la sua radice nell’amore di Dio, e richiede innanzitutto un cammino personale, un percorso di comprensione, di “assunzione”. Esso non può mai arrivare per inerzia. Il male commesso non si dimentica, ma richiede una precisa volontà di superamento. Non cancella il torto subito, ma lo vuole superare per un bene maggiore. Cercare di dimenticare, aspettare che il tempo da solo curi le ferite, non assumere il male commesso guardandolo in faccia, chiamandolo con il suo nome, significa fare del perdono un gesto banale, che non risana alcuna ferita, e non produce pace.

Giovanni Paolo ii , nel cammino di preparazione al Giubileo del 2000, volle avviare anche un percorso di purificazione della memoria, che suscitò non poche polemiche, ma che fu un’intuizione importante: per guardare al futuro con speranza e in pace, è necessario non dimenticare, non attendere cioè che il problema si risolva da sé, ma fare un percorso di purificazione della memoria, assumerlo per poi superarlo. È necessaria una volontà precisa, un’azione positiva di incontro con il male. Le ferite, se non sono curate, assunte, elaborate, condivise, continueranno a produrre dolore anche dopo anni o addirittura secoli. Creano, infatti, un atteggiamento di vittimismo e di rabbia, che rendono difficile, se non impossibile, la riconciliazione. Pensiamo ad esempio al nostro rapporto con le altre comunità religiose non cristiane: quanto è difficile ancora oggi essere in una relazione serena con ebraismo e islam! Finché da parte di tutti non vi sarà una purificazione della comune memoria, le ferite del passato continueranno ad essere un bagaglio da portare sulle proprie spalle.

In Terra Santa ancora oggi, ad esempio, ben pochi sono coscienti del cammino fatto dalla Chiesa rispetto ad ebraismo e islam, e spesso per la gente restiamo quelli delle crociate o delle persecuzioni, delle inquisizioni, ecc.

Tornando al riferimento biblico, ricordiamo la storia di Giuseppe che fu vittima di una tremenda ingiustizia: tradito e venduto dai suoi stessi fratelli, sarà deportato, migrante, schiavo, carcerato. La ferita inflitta è grande. Tuttavia, dopo il lungo cammino di riconciliazione che Giuseppe e i suoi fratelli dovranno vivere, egli pronuncia una frase bellissima: «Io sono Giuseppe, il vostro fratello, quello che voi avete venduto sulla via verso l’Egitto. Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita (…). Dunque non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio» (Gen 45, 4-5.8).

Lungi dal sentirsi solo una vittima, Giuseppe afferma che in tutto, perfino nelle ingiustizie subite, vi è un progetto di Dio che guida la storia per il bene dei suoi eletti. È stato capace di fare un percorso di rilettura della propria tragica esperienza. Dopo quelle parole, Giuseppe bacia tutti i fratelli e piange, quindi si mette a conversare con loro , come a dire: solo ora può iniziare il vero dialogo, dopo aver elaborato passo dopo passo la propria difficile storia!

(Non è un caso che San Giovanni xxiii (il suo secondo nome di battesimo era proprio «Giuseppe»!), ricevendo in udienza il 17 ottobre 1960 una delegazione di ebrei, rivolgesse loro la frase: «I’m Joseph your brother!». Con essa, il Pontefice volle aprire una nuova era di riconciliazione e di riscoperta di fraternità tra la Chiesa Cattolica e il popolo ebraico, dopo oltre milleseicento anni di estraneità, inimicizie e persecuzioni. Il cammino di riconciliazione non si risolve, quindi, in un abbraccio “buonista”: esso è spesso segnato da ferite passate e presenti. Non si tratta di un superficiale condono, ma di un caricarsi delle ferite proprie e dell’altro.)

La fede ha naturalmente la capacità di aprire il credente alla relazione, perché lo apre all’incontro con Dio, che diventa poi naturalmente anche sguardo all’altro da sé.

Ma è anche necessaria un’educazione umana al perdono, una formazione culturale che consenta all’uomo di guardare gli eventi non esclusivamente dalla prospettiva delle proprie ferite, e lo aiuti ad interpretare gli eventi con uno sguardo verso il futuro, che tenga in considerazione anche il bene della realtà umana e sociale circostante, il bisogno di riattivare dinamiche di vita.

Il primo frutto del perdono è la libertà dai lacci emotivi prodotti dal rancore e dalla vendetta, che imprigionano ogni prospettiva di relazione dentro un cerchio di dolore e di violenza. Il perdono permette la guarigione dell’animo umano, riattiva le dinamiche di vita e apre al futuro.

In Terra Santa ci troviamo ancora in una situazione di conflitto logorante, colmo di rancori e ingiustizie. Esso influisce in modo decisivo sulle dinamiche religiose, sociali e politiche locali, serrando ciascuno nel proprio dolore e nella propria paura, e rendendo difficili l’ascolto e la comprensione dell’altro.

Eppure, vi sono molte persone, israeliane e palestinesi, che si incontrano e che, nonostante siano state colpite in un modo o nell’altro dal conflitto, non hanno paura di continuare a dialogare e a credere nella convivenza pacifica. Penso ad esempio al Parents’ Circle (genitori o parenti di vittime del conflitto, israeliani e palestinesi, che hanno deciso di unirsi per attivare dinamiche di riconciliazione e di incontro, perché altri non soffrano quanto loro hanno sofferto), o a Donne per la pace; o allo scrittore Grossman, che ha una forte influenza.

Tra le iniziative di carattere civile, penso al Jerusalem Intercultural Center. Composto da israeliani e palestinesi, ebrei, musulmani e cristiani, si occupa di migliorare la vita degli abitanti della città, a prescindere dalle loro appartenenze. Si propongono di colmare una lacuna spaventosa nella formazione dei ragazzi, cercando di fare conoscere le tradizioni religiose di ciascuna comunità di appartenenza.

Si devono inoltre ricordare le tante scuole cristiane. Sono migliaia gli studenti che passano nelle nostre scuole, in prevalenza musulmani e cristiani. Studiare e vivere insieme, gomito a gomito, è un modo concreto per educare al rispetto delle differenze.

Le nostre scuole accolgono prevalentemente cristiani e musulmani per motivi linguistici, perché entrambi parlano arabo. Ma vi sono anche scuole bilingue, come la rete di Hand—in—Hand, fondata da un musulmano e un ebreo insieme, dove gli alunni studiano in arabo ed ebraico, con doppio insegnante in ogni classe.

Vi sono poi altre iniziative di carattere diverso, a me personalmente assai vicine. Ci sono gruppi di giovani e meno giovani che non vogliono limitarsi ad incontri di carattere sociale, storico e culturale. Vogliono capire l’uno le ragioni dell’altro e la sua fede. Sono gruppi che si dedicano alla lettura dei testi sacri: non fanno pubblicità e di loro non si sa nulla pubblicamente, ma sono numerosi e crescono continuamente. Si tratta di ebrei israeliani che leggono e commentano insieme ai cristiani arabi l’Antico Testamento.

Sono solo alcuni esempi, ma significativi, di come la costruzione di una mentalità di riconciliazione sia complessa, richieda una partecipazione attiva a partire da una coscienza e da un desiderio serio di relazione.

Non si potranno superare gli ostacoli odierni nel cammino di riconciliazione, né progettare un futuro sereno, se non si avrà il coraggio di purificare la propria lettura della storia dall’enorme bagaglio di dolore e ingiustizie che ancora condizionano pesantemente il presente e le scelte che spesso oggi si compiono. Non si tratta di dimenticare, certamente. Sarà tuttavia assai arduo costruire un futuro sereno se si pone alla base della propria identità sociale e nazionale “l’essere vittima”, anziché fondare le proprie prospettive su una comune speranza.

Questo, ovviamente, solleva la domanda: come ripensare la storia e la memoria, come parlare di perdono, finché il mio presente è segnato da ingiustizia e dolore?

È proprio su questo punto decisivo che il dialogo interreligioso in Medio Oriente non può esimersi dal confrontarsi.

Per abbattere i muri e le paure, bisogna conoscersi e incontrarsi, creando occasioni concrete di dialogo. Il coraggio della pace è una sfida ancora più grande, appassionata e appassionante: produce nel cuore dell’uomo un radicale cambiamento, meglio indicato con la parola teshuvà, “ritorno”: all’altro e a Dio. Andare in cerca del fratello, superando le ferite e il vittimismo, è un cammino lungo, dove si può «cadere nel pozzo», ma comunque un cammino guidato da Dio, che è capace di trasformare il male in bene, le ferite in occasioni di riconciliazione, ciò che è sfigurato nel Trasfigurato.

Nel contesto personale, perdono pace e giustizia possono essere facilmente declinati insieme. Intendo dire che, per quanto possa essere difficile e ci voglia un percorso umano e religioso complesso, che coinvolge la sfera della relazione personale sia di chi è ferito, sia del colpevole/peccatore.

A livello sociale e politico, le dinamiche sono diverse, i tempi sono necessariamente più lunghi e i percorsi spesso enormemente più complessi, perché devono tenere in considerazione non una relazione personale, ma quella sociale. Si devono cioè prendere in considerazione le ferite collettive, il dolore di tutti, le diverse comprensioni degli eventi all’origine del dolore comune, i tempi diversi di comprensione… insomma non è possibile trasferire sic et simpliciter le dinamiche personali all’interno del contesto sociale e politico.

Occorre agire capillarmente in tutti gli ambiti: politico, religioso e civile, contemporaneamente; il perdono, nella sua funzione di guarigione del soggetto, può agire solo se coinvolge tutte le fibre del suo essere.

I tempi delle persone e delle comunità non sono uguali per tutti, le ferite lasciate nel cuore delle persone non richiedono la stessa cura per tutti.

Occorre aggiungere che la mancanza di perdono ha conseguenze umane ed economiche enormi. Il rifiuto alla riconciliazione ha costi enormi, poiché richiede investimenti in armamenti, sconvolge la vita delle famiglie, impedisce la crescita economica… crea insomma distruzione a tutti i livelli della vita civile.

La riconciliazione, invece, può diventare fonte di crescita per tutti. Le ingenti risorse impiegate in Terra Santa per mantenere il conflitto vanno a scapito di sviluppo e crescita.

La politica e le istituzioni religiose hanno un ruolo importante nella formazione alla coscienza del perdono, ma non possono nemmeno loro forzare i tempi e i modi. In Terra Santa si impara davvero a saper attendere, a rispettare l’uno i tempi dell’altro, senza forzarli. Questo significa saper stare con lungimiranza e pazienza dentro queste continue tensioni relazionali, fatte di sospetto e allo stesso tempo di ricerca. Ci viene chiesto continuamente dalle circostanze di dare un senso a queste attese, di non pretendere che i nostri tempi debbano essere per forza quelli degli altri.

Il perdono non si può imporre né pretendere. Mai. Esso è sempre frutto di atto di volontà, di amore, di desiderio di incontro, di vita. Il “per-dono” vero è sempre un dono ricevuto e consegnato. È un’opzione del cuore, personale o della collettività. Non può essere una scelta che proviene dall’esterno.

E su questo mi preme ribadire ancora una volta di quanto sia importante e determinante un serio dialogo interreligioso. Esso, quando è sincero e affronta le questioni relative al proprio territorio e alle rispettive comunità, crea mentalità di incontro e di rispetto reciproco, crea quel necessario background sul quale poi fondare anche le successive prospettive politiche. Crea le premesse perché il perdono e la riconciliazione non siano solo slogan accademici, ma vita vissuta.

Ebraismo, islam e cristianesimo, ad esempio, hanno un approccio diverso all’esperienza di perdono, che viene spesso considerato una debolezza. Nel contesto mediorientale l’idea di perdono è connessa anche alle dinamiche tribali e culturali ancestrali, secondo il quale il sangue (inteso anche come onore e dignità) deve essere misurato con il sangue. Perdonare è inteso come sinonimo di rinuncia alla difesa dei propri diritti. Vorrei al proposito presentare un’altra icona biblica. In Genesi 32, Giacobbe, di notte, si trova al guado dello Iabbok. Egli, che ha vissuto tutta la sua vita muovendosi con furbizia tra le varie situazioni, si trova ora braccato, in scacco. Non può tornare indietro, perché la sua furbizia gli ha inimicato lo zio Labano; non può passare il fiume, perché la sua astuzia ha trasformato Esaù, suo fratello, in suo nemico: è solo. E proprio in quella notte un misterioso personaggio lotta con lui. Giacobbe riconosce in lui il volto di Dio, tanto che quel luogo si chiamerà “Penuèl”, il “volto di Dio”. Da tale lotta notturna con Dio, Giacobbe esce zoppo, eppure confessa: «Ho visto Dio faccia a faccia!». Egli, quindi, esce sconfitto ma vittorioso, zoppicante, ma appoggiato a Dio. Per questo riceve un nuovo nome, indicato dal Signore: Israele. Solo ora, zoppicando, Giacobbe può andare incontro al fratello-nemico: Esaù lo abbraccia e i due piangono. A questo punto, Giacobbe rivolge a Esaù una frase molto forte, talvolta non adeguatamente tradotta e che perciò rendo letteralmente: «Ho visto il tuo volto come si vede il volto di Dio» (Gen 33, 10). Solo quando abbiamo sperimentato la nostra debolezza e, in questa, abbiamo incontrato il volto di Dio, siamo pronti ad andare incontro al fratello-nemico. Se non si va incontro all’altro zoppicando, si rischia di aprire un altro scenario di guerra.

Il cammino verso la riconciliazione implica una sconfitta. Se Giacobbe non cammina sconfitto e zoppicante verso Esaù non può vedere nel suo volto il volto di Dio. Nel cammino della riconciliazione, spesso, si vince quando si perde e si è falliti. Dietro e dentro ogni situazione non c’è un nemico, ma una persona con le nostre stesse paure, debole come Giacobbe, come Esaù.

Si vanno ripetendo da anni riflessioni che invitano a mettersi “dalla parte del nemico”. Lo diceva il cardinal Martini e lo spiegava David Grossman in un suo libro con questo titolo. Mettersi dalla parte del nemico significa la volontà di capire l’altro: fermarsi per prendere atto della situazione e avere il coraggio di cambiare. La pace esige coraggio. Mettersi nei panni dell’altro esige comprensione, compassione e assunzione delle proprie responsabilità. Allora diventano possibili la riconciliazione e il perdono. Ma si deve tenere presente che perdonare è facilmente inteso come perdere e chi perdona è visto come un perdente, anche se la verità è opposta: perdonare richiede una grande forza interiore.

Tutto ciò mi ricorda un altro passaggio biblico, questa volta neotestamentario: la drammatica scelta che s’impone al popolo tra Gesù e Barabba. Si tratta di una scelta che è posta innanzi a ciascuno di noi, ogni giorno. Pilato mostra al popolo due figure di Messia: Gesù e Barabba. Barabba, in aramaico, significa “Figlio di papà”. È un titolo che scimmiotta la figura di Gesù, il vero Bar-Abba, il Figlio del Padre che chiama quest’ultimo “Abbà”. Barabba era un attivista, come si direbbe oggi: lottava per la liberazione del suo popolo. Aveva un suo seguito, parlava di giustizia, di libertà, di dignità per il suo popolo: il suo era un messianismo semplice, concreto, attraente e tutto meno che utopico. Dall’altra parte c’era Gesù.

Come Patriarca latino di Gerusalemme, mi sono trovato, fin dall’inizio, in una situazione complicata all’interno della Chiesa e naturalmente all’esterno, nella situazione di conflitto più o meno armato. Come essere fedeli a Cristo senza dare l’impressione di non difendere il gregge a me affidato e rimanendo allo stesso tempo defensor civitatis? Cosa significa concretamente stare dalla parte di Gesù e non di Barabba? Come predicare l’amore ai nemici senza dare l’impressione di confermare una narrativa contro l’altra, israeliana contro quella palestinese, o viceversa? Ogni giorno anch’io sono obbligato alla scelta: Gesù o Barabba.

In Medio Oriente, a Gerusalemme come ad Aleppo, ogni cristiano, come me, è posto dinanzi a questa drammatica scelta: Gesù o Barabba? Morire sulla croce o combattere?

Come si può parlare di liberazione dalla schiavitù del peccato, e di perdono, quando il tuo popolo soffre per la dominazione di un’autorità straniera? Non significherebbe darla vinta all’oppressore? Prima di parlare di perdono non è necessario che si faccia giustizia? In fondo, Barabba, non è così male. È, anzi, ragionevole.

Certo, bisognerebbe comprendere che scegliere Cristo non è scegliere l’indifferenza al male del mondo. C’è la mentalità di Barabba, l’integralismo di chi vuol fare una sorta di nuove crociate, ma c’è anche l’indifferenza di un cristianesimo disincarnato. Eppure, in fin dei conti, il cristiano ha scelto Cristo, e questi è morto in croce, fallito e sconfitto. Dal punto di vista strettamente umano, il perdono assomiglia ad una sconfitta, almeno nel breve periodo.

Di fronte al male del mondo, quindi, compito del cristiano è semplicemente quello di soffrire, di morire in croce, di lasciarsi trafiggere, di farsi sconfiggere? Certamente no.

Eppure, Gesù non ha liberato l’uomo da questa o quella oppressione umana. Gesù non ha risolto nessuno dei problemi sociali e politici del suo tempo. Non ha operato una liberazione, ma la liberazione. Ha ricuperato nella sua radice profonda la relazione tra Dio e l’uomo e degli uomini tra loro. Il cristiano, dunque, si muove innanzitutto partendo da questa consapevolezza e da questa esperienza, quella di chi è già stato liberato e al quale niente e nessuno può toglier quella libertà, nemmeno la morte, perché ha fatto esperienza di una Vita che nessuno gli può portare via.

Il cristiano deve dunque darsi da fare come qualsiasi altro, perché la giustizia, la libertà, la dignità, l’uguaglianza tra gli uomini Essendo già stato liberato, non ha paura, non teme la morte, non si lascia sconvolgere dal male che è di fronte a lui, anche se ne soffre come chiunque altro. Secondo la mentalità di Barabba, la strategia cristiana è un fallimento, non porterà a nulla. È una strategia di pii desideri senza futuro.. La testimonianza di tante persone, invece, soprattutto dei piccoli, dei poveri, quelli che non hanno nulla, ci dice che molto è distrutto, ma il seme è rimasto e da lì rinascerà nuovamente la vita.

Per noi cristiani, quindi, Gesù non deve prendere il volto di Barabba: nella Chiesa, la giustizia non deve diventare giustizialismo, la trasparenza non deve tramutarsi in gogna, la giustizia della Croce non può annacquarsi nella giustizia mondana.

C’è un modo particolare di stare nel conflitto, un modo cristiano di starci.

Per l’una e l’altra parte del conflitto abbiamo il dovere di testimoniare la nostra partecipazione ai drammi e alle speranze di questi popoli. Devono poter contare sul fatto che un cristiano non è mai passivo, indifferente, rassegnato. La nostra vocazione è vivere in maniera diversa il conflitto, evitando che entri nel cuore delle persone, bruci la loro fede e speranza, e diventi un modo di pensare. Stare a Gerusalemme per un cristiano vuol dire anche “stare sulla croce”. E questo significa non solo fare proprio il dolore degli altri, ma imparare a perdonare, come Gesù ha perdonato il ladrone pentito sulla croce. Se vogliamo stare sulla croce con Gesù, allora, siamo chiamati a chiedere la grazia del perdono. Siamo chiamati a desiderare la salvezza per tutti, anche per i ladroni, anche per Barabba.

Credo che spesso si tratti soprattutto di stare, esserci, dentro quel mondo ferito, di accettare di non avere altre soluzioni che stare lì, essere vicino, farsi prossimo, senza la pretesa di insegnare a perdonare, ma cercando di condividere. L’unico modo per insegnare il perdono è sperimentarlo e farlo sperimentare. Un esercizio accademico, o una decisione politica potranno ratificare o spiegare, ma mai precedere la decisione di perdonare, che è frutto di un’opzione del cuore.

Perché diciamolo, in fondo “perdono” non è altro che sinonimo di “amore”. È solo un amore grande per i propri cari, per la propria comunità, che può dare fondamento a un gesto così autenticamente rivoluzionario come il perdono.

di Pierbattista Pizzaballa