DONNE CHIESA MONDO

L’inchiesta
Le famiglie spezzate delle badanti e la “Sindrome Italia”

Le madri
degli orfani bianchi

 Le madri degli orfani bianchi  DCM-004
02 aprile 2022

Dopo vent’anni di lavoro come tecnico di produzione, la fabbrica mi licenziò: avevano deciso di spostare gli impianti in Cina. A casa non avevamo da mangiare. Sono partita dalla Romania per disperazione; in Italia ho trovato lavoro come badante. Mi sono lasciata dietro due figlie e una madre anziana. Per sei anni non sono riuscita a vederle. Quando sono potuta tornare per qualche giorno, avevo perso l’abitudine di toccarle, io che le mie figlie le abbracciavo di continuo. Non mi sentivo più una madre: solo una tasca con i soldi e una voce al telefono». Liliana Nechita ha il talento della scrittrice nel raccontare la sua vita divisa, la fatica dell’emigrante e il dolore dei sentimenti impediti dalla distanza. Quel dolore l’ha raccontato nel suo libro d’esordio, Ciliegie amare. In Romania ha avuto gran successo, le ha fruttato premi, riconoscimenti. C’erano dentro le emozioni, le lacerazioni che migliaia di donne condividono: venute dai Paesi poveri nel mondo ricco, per accudire bambini e anziani di famiglie benestanti lasciando dietro di sé i propri figli, i propri anziani.

Secondo il Consiglio d’Europa, sono fino a un milione gli “orfani bianchi”, i figli di genitori emigrati, in Bulgaria, Romania e Polonia. Nella sola Romania l’Unicef ha stimato in 350.000 i bambini e i ragazzi lasciati in patria da padri e madri andati a lavorare all’estero. «Nella Romania rurale c’è il vuoto: per strada non si incontrano che anziani e bambini» dice Silvia Dumitrache, rumena di Bucarest, venuta in Italia nel 2003 per curare il figlio malato. A Milano, dove vive, ha fondato l’Adri, Associazione donne rumene in Italia.

È andata così: «Ero in cucina, alla televisione trasmettevano un documentario, Home alone. Ho sentito parlare rumeno, ho prestato attenzione. Raccontava la storia di tre ragazzini, figli di madri emigrate, che si erano uccisi. Uno di loro aveva detto a un compagno: vedrai che faccio tornare la mamma. Il giorno dopo si era impiccato. E sua madre era tornata davvero, ma per piangerlo. Mi è caduto il cielo in testa. Ho pensato: devo fare qualcosa». Una delle prime iniziative dell’Adri è stata la campagna Te iubeste mama! (La mamma ti vuole bene). Racconta Dumitrache: «Su Facebook avevo lanciato una petizione per facilitare la comunicazione audiovisiva a distanza tra genitori e figli. Le adesioni furono migliaia. Presi contatto con le biblioteche rumene e con istituzioni italiane per consentire a madri e bambini di parlarsi attraverso lo schermo di un tablet».

Ma un tablet «non può sostituire un abbraccio» avverte Maria Grazia Vergari, docente di psicologia dello sviluppo alla Pontificia facoltà di Scienze dell’Educazione Auxilium. Vergari insegna nei corsi di formazione di Domina, associazione delle famiglie dei datori di lavoro domestico. Spiega: «La sofferenza delle persone che lavorano nelle nostre case come badanti è spesso segreta, nascosta. Le donne non parlano molto dei figli che hanno lasciato: per pudore, per vergogna. Si sentono in colpa, a volte provano rabbia: sanno che è giusto aver cercato un modo per sostentare la famiglia, ma sanno anche di pagare un prezzo molto alto».

Secondo il rapporto annuale di Domina, sono due milioni i lavoratori domestici in Italia e 6 su 10 lavorano in nero. Le sole badanti sono 402.000, per il 92 per cento straniere – e più del 42 per cento arriva dai paesi dell’Europa dell’Est. Alcune vanno incontro a esperienze traumatiche: umiliazioni, condizioni di lavoro stressanti. Non per nulla nel 2005 due psichiatri ucraini, Andriy Kiselyov e Anatoliy Faifrych, coniarono la formula “sindrome Italia” per definire una speciale forma di depressione che colpiva le badanti. Un’inchiesta del «Corriere della Sera» raccontò di 200 ricoveri l’anno nella clinica psichiatrica rumena di Socola. Sulla sofferenza di queste donne pesava spesso il dolore delle famiglie divise. Spiega Maria Grazia Vergari: «A volte alcuni bambini, quando le mamme tornavano a trovarli, le rifiutavano». A Butea, nel nord est della Romania, area tra le più povere del Paese, c’è una casa di accoglienza delle Suore missionarie della Passione di Gesù. Per quattordici anni ha accolto anche gli orfani bianchi. Poi l’irruzione della pandemia ha consigliato di limitarsi a curare gli anziani. Ma alcune religiose ricordano la fredda accoglienza dei bambini alle mamme in visita, quel chiedere insistente «Non mi hai portato il telefonino nuovo? E dove sono i soldi?».

Lentamente, oggi, le cose stanno cambiando. Osserva Silvia Dumitrache: «I genitori più giovani stanno sei mesi all’estero e sei in Romania. Puntano sulla Germania e sull’Europa del Nord, Paesi più organizzati. Qualcuno è riuscito a portare la famiglia in Italia. Tutte iniziative dei singoli, perché in Romania non esistono politiche pubbliche per le famiglie transnazionali». Ogni tanto qualcuno si ribella. Come Vasilica Baciu, che nei primi anni Duemila lasciò in Romania due bambini di nove e undici anni per lavorare in Italia come badante e per dieci anni non riuscì a vederli che una volta ogni 12 mesi. Nella primavera scorsa, con l’aiuto di due avvocate, Sonia Sommacal e Angela Maria Bitonti, Vasilica Baciu ha presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo chiedendo che Italia e Romania rispondano dell’inerzia e dell’indifferenza manifestata sulla questione migratoria.

«Per la Romania le rimesse degli emigranti sono una posta consistente del Pil — sostiene l’avvocata Bitonti — e l’Italia, grazie ai migranti, gode di una manodopera flessibile e a basso costo. Ma i figli vivono vite sospese, subiscono conseguenze pesanti: abbandono scolastico, sindromi depressive, fino al suicidio. Questo è inaccettabile».

Segnala Liliana Nechita, che in Italia continua a fare la badante mentre lavora a un nuovo romanzo: «Anni fa partivano i quarantenni, adesso dalla Romania vanno via tanti giovani qualificati. Metà della forza lavoro se ne è andata. La politica dovrebbe considerare l’emigrazione una tragedia. Invece volta le spalle e i piccoli e i poveri rimangono piccoli e poveri».

La sofferenza di quei piccoli è già diventata materia di romanzo. Con Sindrome Italia. O delle vite sospese di Tiziana Vaccaro è stata portata sulla scena del teatro. Quando entrerà nell’agenda della politica sarà un gran giorno.

di Bianca Stancanelli