Pregando con Francesco nel crocevia della pace

 Pregando con Francesco nel crocevia della pace  QUO-048
28 febbraio 2022

Nelle ore gravi, quando più evidente è l’impotenza e la pace è presa a cannonate insieme ai popoli, si va a bussare alla casa di chi si riconosce padre. Per pregare sì, per ritrovarsi come comunità in una casa comune, per ascoltare una parola impastata di speranza. Insomma, si va dal Papa e la preghiera torna in campo quasi per “scuotere” il Signore della Storia. E piazza San Pietro torna a essere — in realtà lo è sempre e da sempre — crocevia dei pellegrini della pace.

La preghiera non fa notizia, non entra nella narrazione della storia, nei report diplomatici o nelle cronache giornalistiche. Eppure fa la storia. E la piazza ieri non era certo vuota all’ora dell’Angelus in questo inverno di guerra. Ma piazza San Pietro non è mai vuota, proprio per la forza spirituale che racchiude, per le storie di donne e di uomini che lì s’incrociano fisicamente e spiritualmente. Non conta a quale popolo, cultura, pensiero o religione appartengono. Piazza San Pietro è uno spazio aperto di pace, di libertà. La casa di tutti.

La piazza non era, del resto, vuota neppure quel 27 marzo 2020, nella serata della preghiera solitaria — apparentemente solitaria — del Papa nella bufera della pandemia.

E ora che un’altra bufera è stata scatenata si va dal Papa. Si va ad ascoltarlo, a pregare con lui. Per tornare a casa, benedetti, con una speranza in più e, sicuramente, molto molto meno soli.

Significativamente ieri in piazza c’erano rappresentanti della numerosa e vivace comunità ucraina residente a Roma e in Italia. Con le loro bandiere e anche con i palloncini azzurri e gialli: i colori nazionali. In piazza ci si scambiano notizie, faccia a faccia, dopo che in queste ore le chat su WhatsApp stanno esplodendo. E anche così ci si accosta alla storia di questa “terra di confine” (è il significato della parola Ucraina) chiamata non da oggi, col sangue, a essere ponte tra Oriente e Occidente.

Tra gli ucraini che vivono in Italia si ricordano gli anni delle persecuzioni del secolo scorso — ma non ne sono passati poi così tanti... — raccontate dalle babusie, le nonne. Quando si celebrava l’Eucaristia nelle case in clandestinità — ma si è sempre celebrata — e i sacerdoti scappavano anche vestiti da nonna per sfuggire agli arresti. Ma lì hanno resistito nelle “catacombe del xx secolo” a anni e anni di arresti e uccisioni: lo si ricorda mentre anche oggi, in Ucraina, si vive e si celebra nascosti in una cantina per sfuggire alle bombe.

Tra i 27 beati martiri che Giovanni Paolo ii ha proclamato a Leopoli il 27 giugno 2001, Sevetijan Stepan Baranyk, basiliano, venne bollito in un calderone e fatto mangiare ai compagni di carcere di Drohobyč come minestra. Tra il 27 e il 28 giugno 1941. E non si può non dire “grazie” — ci si ripete oggi — agli agenti del famigerato servizio segreto sovietico perché, da perfetti “postulatori”, hanno fabbricato documenti per condannare, inconsapevoli di mettere insieme prove di santità per cause di canonizzazione.

Oggi donne e uomini di Ucraina che vivono la vita religiosa ricordano che quando cadde il regime comunista — non è passato così tanto tempo... — si scoprì che l’ospedale di Leopoli era stato un grande monastero: religiose e religiosi vi lavoravano, quasi sempre all’insaputa l’una dell’altro. Ma non erano stati cancellati.

Questo si racconta, si ricorda oggi: un passato recente. Mentre, senza tanti giri di parole, ci si mette a disposizione avendo come riferimento la basilica di Santa Sofia a via Boccea — principale centro greco cattolico ucraino a Roma — per raccogliere aiuti concreti per chi, in patria, sta soffrendo. Medicine (c’è un elenco lungo e preciso: si va dall’insulina, alla tachipirina, dagli anti-infiammatori agli anti-dolorifici) e alimenti (pasta, olio, riso, caffè, thé, formaggi…). Quando leggi “pannolini”, però, fa più male... Di tutto si occupa il rettore, padre Marco Semehen.

Ma ieri, in piazza, c’erano anche tanti giovani, soprattutto italiani. Scuole, oratori, parrocchie, associazioni, movimenti. Famiglie. La pandemia, da due anni, non consente incontri di popolo. Ma ieri, è un fatto, nell’aria della piazza c’era qualcosa di nuovo. Sotto la finestra del Papa — sì, “quella finestra” — i protagonisti della nuova generazione hanno detto “no” alla guerra tracciando su se stessi il segno della croce.

Dagli incontri (“casuali”) in piazza San Pietro nascono sempre nuove storie, nuove amicizie, nuovi percorsi di vita. Chi va dal Papa ha una disposizione alla “cultura dell’incontro” che può felicemente “scombussolare” la vita di ciascuno. Soprattutto avviene quello “scambio” tra generazioni che è garanzia di pace. Ci sono i meno giovani che la guerra l’hanno conosciuta. Sono sempre meno. Ci sono quelli che erano qui, in piazza, a gridare con Giovanni Paolo ii che la guerra è un’avventura senza ritorno, a gridare “ma più la guerra!”, guardando al Medio oriente, all’Iraq, ai Grandi Laghi africani, all’ex Jugoslavia... Sì, ci sono i guerrieri disarmati che hanno preso parte a quelle campagne di preghiera e digiuno, a quelle strategie della pace e della riconciliazione. Portate avanti sempre venendo dal Papa, ascoltandolo, pregando con lui (e per lui).

Questo essere con il Papa — soprattutto quando la pace è in pericolo — lo si è visto ieri da un “particolare”: il palazzo più fotografato è stato quello al numero civico 10 di via della Conciliazione, sede dell’Ambasciata della Federazione Russa presso la Santa Sede, dove Francesco si era personalmente recato venerdì mattina.

Ecco la cronaca di una giornata di preghiera in Piazza San Pietro divenuta, nuovamente, la prima di tante trincee di preghiera per la pace che diventano frontiere di pace.

di Giampaolo Mattei