Il magistero

 Il magistero  QUO-045
24 febbraio 2022

Venerdì 18

La guerra ci fa vergognare
tutti

Questa mattina avete pregato dinanzi alla Confessione dell’Apostolo Pietro, rinnovando insieme la professione di fede: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Lo stesso gesto che abbiamo compiuto prima della Messa di inizio del pontificato, per manifestare, come diceva Benedetto xv , che «nella Chiesa di Gesù Cristo, la quale non è né latina, né greca, né slava, ma cattolica non esiste alcuna discriminazione tra i suoi figli e che tutti, latini, greci, slavi e di altre nazionalità hanno la medesima importanza» (Enc. Dei Providentis, 1 maggio 1917).

A lui, che è il fondatore della Congregazione per le Chiese Orientali e del Pontificio Istituto Orientale, va la nostra memoria riconoscente, a cento anni dalla sua morte. Egli denunciò l’inciviltà della guerra quale “inutile strage”.

Il suo monito rimase inascoltato dai Capi delle Nazioni impegnate nel primo conflitto mondiale. Come inascoltato è stato l’appello di San Giovanni Paolo ii per scongiurare il conflitto in Iraq.

Come in questo momento, in cui ci sono tante guerre dappertutto, questo appello sia dei Papi sia degli uomini e donne di buona volontà è inascoltato.

Sembra che il premio più grande per la pace si dovrebbe dare alle guerre: una contraddizione! Siamo attaccati alle guerre, e questo è tragico.

L’umanità, che si vanta di andare avanti nella scienza, nel pensiero, in tante cose belle, va indietro nel tessere la pace. È campione nel fare la guerra. E questo ci fa vergognare tutti.

Dobbiamo pregare e chiedere perdono per questo atteggiamento.

Abbiamo sperato che non ci sarebbe stato bisogno di ripetere parole simili nel terzo millennio; eppure l’umanità sembra ancora brancolare nelle tenebre.

Abbiamo assistito alle stragi dei conflitti in Medio Oriente, in Siria e Iraq; a quelle nella regione etiopica del Tigrai; e venti minacciosi soffiano ancora nelle steppe dell’Europa Orientale, accendendo le micce e i fuochi delle armi e lasciando gelidi i cuori dei poveri e degli innocenti, questi non contano.

E intanto continua il dramma del Libano, che ormai lascia tante persone senza pane; giovani e adulti hanno perso la speranza e lasciano quelle terre.

Eppure esse sono la madre-patria delle Chiese Cattoliche Orientali: là si sono sviluppate custodendo tradizioni millenarie, e molti di voi, Membri del Dicastero, ne siete i figli e gli eredi.

Il vostro quotidiano è come un impasto della polvere preziosa dell’oro del vostro passato e della testimonianza di fede eroica di molti nel presente, insieme però al fango delle miserie di cui siamo anche responsabili e del dolore che vi viene provocato da forze esterne.

O ancora siete semi posti sugli steli e sui rami delle piante secolari, trasportati dal vento fino ad impensabili confini: i cattolici orientali ormai da decenni abitano continenti lontani, hanno solcato mari e oceani e attraversato pianure.

I vostri lavori hanno trattato dell’evangelizzazione, che costituisce l’identità della Chiesa in ogni sua parte, anzi, la vocazione di ogni battezzato.

Dobbiamo porci maggiormente in ascolto della ricchezza delle diverse tradizioni. Penso all’itinerario del catecumenato degli adulti, che prevede la celebrazione dei Sacramenti dell’iniziazione cristiana in forma unitaria: una consuetudine che nelle Chiese Orientali è custodita e praticata anche per i fanciulli.

In entrambi i percorsi si intuisce l’importanza di una sapiente catechesi mistagogica, che accompagni i battezzati.

Nella Chiesa latina manca questa catechesi mistagogica. Su questa strada sono preziose le diverse ministerialità nella Chiesa, come pure l’armonia nei rapporti con i religiosi e le religiose che operano secondo il carisma proprio anche nei vostri contesti.

C’è un’esperienza in cui la “creta” della nostra umanità si lascia plasmare, non dalle opinioni mutevoli o dalle pur necessarie analisi sociologiche, ma dalla Parola e dallo Spirito del Risorto. Questa è la liturgia.

Percorso
sinodale

Questo fa pensare anche al cammino sinodale. Il percorso sinodale non è un parlamento... è camminare insieme sotto la guida dello Spirito, e voi, nelle vostre Chiese, avete dei Sinodi, antiche tradizioni sinodali, e siete testimoni di questo.

Nella sinodalità quando non c’è lo Spirito c’è soltanto un parlamento o un sondaggio d’opinione.

La bellezza dei riti orientali è ben lungi dal costituire un’oasi di evasione o di conservazione. L’assemblea liturgica si riconosce tale perché ascolta la voce di un Altro, restando rivolta a Lui, e proprio per questo sente l’urgenza di andare verso il fratello.

Anche quelle tradizioni che custodiscono l’uso dell’iconostasi, con la porta regale, oppure il velo che nasconde il santuario in alcuni momenti del rito, ci insegnano che tali elementi architettonici o rituali non trasmettono l’idea della distanza di Dio, ma al contrario esaltano il mistero di condiscendenza — di syncatabasi — nel quale il Verbo è venuto e viene nel mondo.

Il Convegno Liturgico per i 25 anni dell’Istruzione sull’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali è un’opportunità per conoscersi all’interno delle commissioni liturgiche delle diverse Chiese sui iuris; è un invito a camminare insieme al Dicastero, secondo la via indicata dal Vaticano ii .

Ciascuna componente dell’unica e sinfonica Chiesa Cattolica si mantenga sempre in ascolto delle altre tradizioni, dei loro itinerari di ricerca e di riforma, custodendo però ciascuna la propria originalità.

La fedeltà alla propria originalità è ciò che fa la ricchezza sinfonica delle Chiese orientali.

Ci si può interrogare sulla possibile introduzione di edizioni della liturgia nelle lingue dei Paesi ove i propri fedeli si sono diffusi, ma sulla forma della celebrazione è necessario che si viva l’unità secondo quanto è stabilito dai Sinodi e approvato dalla Sede Apostolica, evitando particolarismi liturgici che manifestano divisioni di altro genere in seno alle rispettive Chiese.

I fratelli delle Chiese Ortodosse e Ortodosse Orientali ci guardano: anche se non possiamo sederci alla stessa mensa eucaristica, tuttavia quasi sempre celebriamo e preghiamo i medesimi testi liturgici.

Stiamo attenti a sperimentazioni che possono nuocere al cammino verso l’unità visibile di tutti i discepoli di Cristo.

Il mondo ha bisogno della testimonianza della comunione: se diamo scandalo con le dispute liturgiche — e purtroppo recentemente ce ne sono state —, facciamo il gioco di colui che è maestro della divisione.

(Alla plenaria della Congregazione
per le Chiese orientali)

Sabato 19

L’essenziale
è invisibile
agli occhi

La vostra Associazione riunisce numerosi ciechi e ipovedenti che vogliono vivere in fraternità la gioia del Vangelo.

Il vostro pellegrinaggio è segno della partecipazione dei fedeli in condizione di disabilità alla comunione della Chiesa.

Vorrei condividere una breve riflessione basata sulla Parola di Dio: sull’episodio di Gesù che incontra il cieco nato in accordo col nome della vostra Associazione.

Lo sguardo di Gesù ci precede, chiama all’incontro, che chiama all’azione, alla tenerezza, alla fraternità.

Gesù arriva alla piscina di Siloe: vede un cieco. Anche i discepoli vedono quell’uomo, il quale non chiede nulla.

Gesù vede in lui un fratello che ha bisogno di essere liberato. Il Signore chiama a coltivare tenerezza e lo stile dell’incontro.

I discepoli sono fermi allo sguardo che in quel tempo si aveva sulle persone nate cieche, considerate come nate nel peccato, punite da Dio

In una cultura del pregiudizio, Gesù rifiuta radicalmente questo modo di vedere. Afferma davanti ai discepoli che «né lui né i suoi genitori» sono causa del suo male. È una parola di liberazione, di accoglienza.

Oggi, purtroppo, siamo abituati a percepire solo l’esterno delle cose, l’aspetto più superficiale.

La nostra cultura afferma che le persone sono degne d’interesse in funzione del loro aspetto fisico, dei vestiti, delle belle case, delle vetture di lusso, della posizione sociale, delle ricchezze.

Ancora oggi la persona malata o con disabilità, a partire dalla sua fragilità, dal suo limite, può essere al cuore dell’incontro: l’incontro con Gesù, che apre alla vita e alla fede, e che può costruire relazioni fraterne e solidali, nella Chiesa e nella società.

In secondo luogo, Cristo si avvicina al cieco, gli applica del fango sugli occhi e lo manda alla piscina di Siloe.

Il cuore di Gesù non può restare indifferente davanti alla sofferenza.

Egli invita ad agire subito, a consolare, lenire e curare le ferite dei fratelli.

La Chiesa è come un ospedale da campo. Quanti feriti, quanti fratelli e sorelle hanno bisogno di una mano!

Il paradosso è questo: l’uomo cieco, incontrando Colui che è la Luce del mondo, diventa capace di vedere, mentre quelli che ci vedono, pur incontrando Gesù, restano ciechi.

Questo paradosso attraversa spesso la nostra vita e i nostri modi di credere. Saint-Exupéry, nel suo libro Il piccolo principe, scriveva: «Non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi».

Vedere con il cuore è vedere il mondo e i nostri fratelli attraverso lo sguardo di Dio.

Gesù ci invita a rinnovare il modo di vedere le persone e le cose. Propone una visione sempre nuova delle relazioni con gli altri, in particolare in famiglia, della fragilità umana, della malattia e della morte.

Ci invita a vedere tutto questo con lo sguardo di Dio!

La fede non si riduce a una serie di credenze teoriche, di tradizioni e usanze. È un legame e un cammino alla sequela di Gesù, che rinnova il nostro modo di vedere.

Infine, noi cristiani non possiamo accontentarci di essere illuminati: dobbiamo essere anche “testimoni della luce”.

Mentre i capi dei farisei, chiusi nelle loro tradizioni e nella loro rigidità, condannano il cieco nato come un “peccatore”, costui, con una semplicità disarmante, professa la sua fede: «Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo» e diventa testimone di Gesù.

Anche noi siamo chiamati a testimoniare Gesù nella nostra vita con lo stile dell’accoglienza e dell’amore fraterno.

Vi incoraggio a proseguire su questa strada, nella quale già camminate, in questo “vedere insieme”, facendo fruttificare il carisma del padre Yves Mollat.

Lasciate che Gesù vi venga incontro, che guarisca le vostre ferite e vi insegni a vedere con il cuore.

Solo Lui conoscere veramente il cuore dell’uomo, solo Lui può liberarlo dalla chiusura e dalla rigidità e aprirlo alla vita e alla speranza.

(Ai membri dell’associazione “Voir ensemble”)

Domenica 20

È triste
che popoli
fieri di essere
cristiani
pensino a farsi
la guerra

Nel Vangelo della Liturgia odierna Gesù dà ai discepoli alcune indicazioni fondamentali di vita.

Il Signore si riferisce alle situazioni più difficili, quelle che costituiscono per noi il banco di prova, quelle che ci mettono di fronte a chi ci è nemico e ostile, a chi cerca sempre di farci del male.

In questi casi il discepolo di Gesù è chiamato a non cedere all’istinto e all’odio, ma ad andare oltre, molto oltre. Andare oltre l’istinto, andare oltre l’odio.

Gesù dice: «Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano».

E ancora più concreto: «A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra».

Quando noi sentiamo questo, ci sembra che il Signore chieda l’impossibile.

E poi, perché amare i nemici? Se non si reagisce ai prepotenti, ogni sopruso ha via libera, e questo non è giusto.

Ma è proprio così? Davvero il Signore ci chiede cose impossibili, anzi ingiuste? È così?

Consideriamo anzitutto quel senso di ingiustizia che avvertiamo nel “porgi l’altra guancia”.

E pensiamo a Gesù. Durante la passione, nel suo ingiusto processo davanti al sommo sacerdote, a un certo punto riceve uno schiaffo da una delle guardie.

E Lui come si comporta? Non lo insulta, no, dice alla guardia: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?».

Disinnescare
il rancore

Chiede conto del male ricevuto. Porgere l’altra guancia non significa subire in silenzio, cedere all’ingiustizia.

Gesù con la sua domanda denuncia ciò che è ingiusto.

Però lo fa senza ira, senza violenza, anzi con gentilezza.

Non vuole innescare una discussione, ma disinnescare il rancore, questo è importante: spegnere insieme l’odio e l’ingiustizia, cercando di recuperare il fratello colpevole. Non è facile questo, ma Gesù lo ha fatto e ci dice di farlo anche noi.

Questo è porgere l’altra guancia: la mitezza di Gesù è una risposta più forte della percossa che ha ricevuto.

Porgere l’altra guancia non è il ripiego del perdente, ma l’azione di chi ha una forza interiore più grande.

Porgere l’altra guancia è vincere il male con il bene, che apre una breccia nel cuore del nemico, smascherando l’assurdità del suo odio.

E questo atteggiamento, non è dettato dal calcolo o dall’odio, ma dall’amore.

È l’amore gratuito e immeritato che riceviamo da Gesù a generare nel cuore un modo di fare simile al suo, che rifiuta ogni vendetta.

Noi siamo abituati alle vendette: “Mi hai fatto questo, io ti farò quell’altro”, o a custodire nel cuore questo rancore che fa male, distrugge la persona.

Veniamo all’altra obiezione: è possibile che una persona giunga ad amare i propri nemici?

Se dipendesse solo da noi, sarebbe impossibile.

Ma ricordiamoci che, quando il Signore chiede qualcosa, vuole donarla.

Mai il Signore ci chiede qualcosa che Lui non ci dà prima.

Quando mi dice di amare i nemici, vuole darmi la capacità di farlo.

Senza quella capacità noi non potremmo, ma Lui dice “ama il nemico” e dà la capacità di amare.

Sant’Agostino pregava così: Signore, «dammi ciò che chiedi e chiedimi ciò che vuoi» (Confessioni, x , 29.40), perché me lo hai dato prima.

Che cosa chiedergli? Che cosa Dio è contento di donarci? La forza di amare, che non è una cosa, ma è lo Spirito.

E con lo Spirito di Gesù possiamo rispondere al male con il bene, possiamo amare chi ci fa del male.

Così fanno i cristiani.

Com’è triste, quando persone e popoli fieri di essere cristiani vedono gli altri come nemici e pensano a farsi guerra!

E noi, proviamo a vivere gli inviti di Gesù? Pensiamo a una persona che ci ha fatto del male.

È comune che abbiamo subito il male da qualcuno. Forse c’è del rancore dentro di noi.

Allora, a questo rancore affianchiamo l’immagine di Gesù, mite, durante il processo, dopo lo schiaffo. E chiediamo allo Spirito Santo di agire nel nostro cuore.

Infine preghiamo per quella persona: pregare per chi ci ha fatto del male.

Noi, quando ci hanno fatto qualcosa di male, andiamo subito a raccontare agli altri e ci sentiamo vittime.

Fermiamoci, e preghiamo il Signore per quella persona, che l’aiuti, e così viene meno questo sentimento di rancore.

Pregare per chi ci ha trattato male è la prima cosa per trasformare il male in bene.

La Vergine Maria ci aiuti a essere operatori di pace verso tutti, soprattutto verso chi ci è ostile e non ci piace.

Per il
Madagascar
e il Brasile

Esprimo la mia vicinanza alle popolazioni colpite nei giorni scorsi da calamità naturali, penso in particolare al sud-est del Madagascar, flagellato da una serie di cicloni, e alla zona di Petropolis in Brasile, devastata da inondazioni e frane.

Il Signore accolga i defunti nella sua pace, conforti i familiari e sostenga quanti prestano soccorso.

Progetto Arca

Saluto e incoraggio il gruppo “Progetto Arca”, che nei giorni scorsi ha inaugurato la propria attività sociale a Roma, in aiuto alle persone senza fissa dimora.

(Angelus in piazza San Pietro)