La memoria liturgica di san Policarpo

Nell’anima il battito
del cuore di Cristo

 Nell’anima il battito del cuore di Cristo  QUO-044
23 febbraio 2022

Quando nelle limpide sere invernali il Kordon si tinge di rosso, il tramonto infuocato sul lungomare di Smirne sembra invitare la città al silenzio. A rallentare la frenesia e la vita di questo estremo lembo occidentale della Turchia per ascoltare una storia. Una storia che i cieli narrano e di cui da secoli i giorni si affidano gli uni agli altri il racconto. Una storia di sangue e di fuoco. Che arde ma non consuma. Una storia che gli abitanti di Izmir non conoscono, ma che inconsapevolmente respirano. E di cui sentono una profonda nostalgia. La stessa che ai tempi di Omero i poeti cantavano guardando questo stesso orizzonte. Per dare voce all’inestinguibile desiderio dell’uomo di ritornare a casa. A Itaca. Dove l’amore, di sangue e di fuoco, arde ma non consuma. Per sempre.

È una storia che comincia con una profezia. All’angelo della Chiesa di Smirne. «Conosco la tua tribolazione. Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita». Promessa di Colui che era morto ed ora vive. E dona la vita. Alla sua Chiesa. A quella giovane, appena nata nella fiorente cittadina della provincia romana d’Asia. Quando le comunità nascevano sulla testimonianza diretta degli apostoli che avevano toccato il Verbo della vita e la tradizione, intatta e robusta, ne costituiva le fondamenta. A quella appesantita dallo scorrere dei secoli che continua il suo cammino, poco visibile e silenzioso, nella moderna repubblica turca. Con il cuore rivolto alla promessa di Cristo risorto. Che la rende fedele. E lo sguardo fisso sulla storia di sangue e di fuoco del suo vescovo martire. Che la rende viva. In questa terra di poesia e profezia.

«All’angelo della chiesa di Smirne scrivi». Dalla penna ardente dell’apostolo Giovanni al cuore infiammato del discepolo Policarpo. La parola dello Spirito prende vita e si fa volto. Ed entra nella storia. Si compiva il primo secolo dell’era cristiana e si avvicinava il secondo. Probabilmente Policarpo non era ancora vescovo della Chiesa di Smirne, ma lo sarebbe diventato presto. «Non temere ciò che stai per soffrire». Parole che hanno il ritmo del cuore di Gesù che si spezza nell’ultima cena. Quello su cui Giovanni aveva posato il capo e il cui battito aveva ascoltato, custodito e donato, perché cominciasse a palpitare nel corpo mistico della Chiesa. E nei suoi testimoni. Chiamati a guidarla e a portare frutto. Molto frutto. Policarpo. ПολύκαρποςFrutti di unità. Di concretezza nella carità e nella sofferenza. Contro il nemico. L’eresia dell’apparenza (docetismo). Testimoniavano fatti quegli uomini. Incontri concreti. Storie di vita. Avvenimenti. Narrati con la credibilità di chi li ha vissuti. Non ha mezzi termini Ignazio quando scrive ai cristiani di Smirne: «Se ciò che il Signore ha fatto è un’apparenza, anche queste catene sono un’apparenza». Ma quelle catene la Chiesa di Smirne le aveva contemplate in tutta la loro concreta rudezza, mentre colui che le portava si lasciava condurre da Antiochia a Roma per subire il martirio. E le aveva amate, perché erano fatte come i chiodi di Gesù. Del battito di un cuore che si spezza. Per dare la vita. «Io sono una vittima per te, e lo sono anche queste mie catene che tu ami». È l’eredità del prigioniero di Antiochia. Così libero da lasciare in dono la libertà. È l’eredità di quel battito divino che Policarpo riceve nell’incontro con il vescovo Ignazio e le sue catene. Nessuna apparenza. È il 107 dell’era cristiana. E quelle catene accendono un fuoco. Il fuoco dell’amore che non consuma ma arde per infiammare altri cuori. E prolungare il battito del cuore di Cristo. Il ritmo nel quale si svela la misteriosa armonia che fonde insieme la gloria di Dio e la vita dell’uomo. E ne rivela la profonda intimità. La stessa che si crea fra il discepolo e il maestro. Vite che si incontrano nell’umanità per vivere in Dio. «Posso dire il luogo dove il beato Policarpo si sedeva per parlare, il suo presentarsi in pubblico e il suo entrare, il suo modo di vivere, il suo aspetto fisico, le conversazioni che teneva dinanzi alla folla e le sue relazioni con Giovanni e gli altri che avevano visto il Signore, come ricordava le loro parole e quel che aveva sentito raccontare da loro a proposito del Signore, dei suoi miracoli, del suo insegnamento […]. Tutte queste cose io le ascoltavo con cura e le ho annotate non sulla carta, ma nel mio cuore, meditandole fedelmente». Incontrava un uomo vivente in Dio, il giovane Ireneo alla scuola di Policarpo. Contemplava un’umanità resa viva dalla visione di Dio e una vita umana che a Dio rendeva gloria. E imparava ad amare l’uomo. E imparava ad amare Dio. Imparava quella Sapienza che lo ha reso Dottore della Chiesa. E scopriva che la gloria divina dà luce a tutto ciò che è umano e lo rende infinito. Ogni gesto. Ogni sfumatura. Ogni particolare si rivela nel suo significato più profondo. Tu sai quando seggo e quando mi alzo. E resta scolpito nel cuore e nell’eternità. E in questa profonda intimità, contemplando i cieli che narrano la gloria di Dio si scopre, con stupore e commozione, che in essi risplende la vicenda dell’uomo vivente. Che è gloria di Dio.

E certo nel cielo di Smirne vive senza fine la storia di un uomo che ha il ritmo del battito del cuore di Cristo. E della sua passione. E si sente ancora risuonare una voce: «Sii forte, Policarpo, mostrati eroico». La udirono scendere dall’alto i cristiani di Smirne mentre il loro vescovo veniva condotto nell’anfiteatro per rinnegare Cristo o dare la vita per Lui. Era un sabato, circa le due del pomeriggio. Il 23 febbraio di un anno intorno al 155. Nel primo anniversario di quel giorno glorioso la comunità dei credenti raccolse i particolari di quanto era accaduto nel Martyrium sancti Polycarpi. Per farne memoria e raccontare una storia di sangue e di fuoco. Che arde ma non consuma. «Appena ebbe innalzato al cielo il suo Amen e conclusa la preghiera, gli addetti al rogo lo accesero. Mentre la fiamma divampava gigantesca, noi vedemmo un prodigio: la fiamma fece una grande sacca, come una vela gonfiata dal vento. Essa girava tutt’intorno al corpo del martire come un muro. Policarpo stava in mezzo, non come carne che brucia, ma come pane che cuoce, o meglio come oro e argento nel crogiuolo ardente». Policarpo morì trafitto da un pugnale. E il suo sangue spense la fiamma del rogo. Ma mantiene vivo l’amore che lo accese. E la Chiesa di Smirne che da lui è nata.

Nelle limpide sere di febbraio, quando il Kordon si tinge di rosso, non lontano dal lungomare al tramonto si innalzano al cielo i canti multilingue di una solenne liturgia. Non è visibile ai passanti, ma la Aziz Polikarp kilisesi, la chiesa più antica di Smirne, costruita nel 1625 dalla comunità francese, custodisce il palpito segreto dell’amore che dona la vita. E tra le mura nascoste, ma splendenti d’oro e di affreschi ne celebra per nove giorni il luminoso ricordo. E la forza delicata che ravviva il respiro libero e aperto della città. E ne diffonde il profumo. In queste sere speciali talvolta, sulle acque immerse nell’orizzonte infuocato del molo di Pasaport, i gabbiani, quasi con un inchino, lasciano il posto al maestoso planare dei pellicani. Rapidi istanti sospesi e fuori dal tempo. Regalità che sorprende anche i passeggeri più distratti. Che non conoscono il segreto di quella nobiltà. Il palpito di un cuore disposto ad offrire il proprio sangue per dare la vita. Non lo conoscono, ma ne avvertono una profonda nostalgia.

di Enza Ricciardi