La celebrazione presieduta dal cardinale Parolin nella giornata conclusiva
del Simposio “Per una teologia fondamentale del sacerdozio”

Nello stile della sinodalità

 Nello stile della sinodalità  QUO-041
19 febbraio 2022

Nella mattina di sabato 19 febbraio, il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, ha presieduto la celebrazione della Santa Messa — all’Altare della Cattedra della Basilica di San Pietro — nell’ultima giornata del Simposio internazionale «Per una teologia fondamentale del sacerdozio». Promosso dal cardinale Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i vescovi, e dal Centro di Ricerca e di Antropologia delle Vocazione, il Simposio era stato aperto da Papa Francesco giovedì 17 febbraio in Aula Paolo vi . Ecco l’omelia del cardinale segretario di Stato.

Eminenze, Cari fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato, Cari fratelli e sorelle,

in questi giorni avete riflettuto sulla teologia fondamentale del sacerdozio.

Ora ci troviamo radunati attorno all’altare, luogo basilare — potremmo dire — della riflessione sul sacerdozio, in quanto, come ci ricorda Papa Francesco nell’Esortazione Apostolica post-sinodale Querida Amazonia, il presbitero «è segno» di Cristo «che effonde la grazia, anzitutto quando celebra l’Eucaristia, fonte e culmine di tutta la vita cristiana.  Questa è la sua grande potestà, che può essere ricevuta soltanto nel sacramento dell’Ordine sacerdotale. Per questo lui solo può dire: “Questo è il  mio  corpo”. Ci sono altre parole che solo lui può pronunciare: “Io ti assolvo dai tuoi peccati”. Perché il perdono sacramentale è al servizio di una degna celebrazione eucaristica. In questi due Sacramenti c’è il cuore della sua identità esclusiva» (n. 88).

Desidero esprimere gratitudine al Card. Marc Ouellet per avere organizzato il Simposio sulla teologia fondamentale del sacerdozio, che ha offerto — attingendo anche dall’esperienza concreta dei Vescovi e dei sacerdoti impegnati nelle Chiese locali — ulteriori elementi che potranno contribuire all’elaborazione di un pensiero organico circa il ministero ordinato, nell’ampia prospettiva del sacerdozio comune dei fedeli che si realizza nella sinodalità della Chiesa.

Anche i testi della liturgia odierna possono aiutarci a riflettere sulla teologia fondamentale del sacerdozio. Noi sacerdoti, infatti, sentiamo che le parole con cui inizia il brano evangelico della Trasfigurazione, appena proclamato, ci riguardano e descrivono la nostra vocazione: «Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli» (Mc 9, 2).

Il Signore ci ha presi con sé. Questo è il suo disegno su di noi, espresso in forma programmatica nel Vangelo di Marco: «Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare, e perché avessero il potere di scacciare i demoni» (Mc 3, 14-15).

Il Signore ci conduce sul monte, luogo dell’incontro con lui, per prendersi cura di noi (Gen 22, 4), per guardarci negli occhi con amore (Mc 10, 21) e parlare al nostro cuore (Os 2, 16), rivelandoci tutto quello che Egli ha udito dal Padre (Gv 15, 15).

Il Signore però ci propone un percorso in salita, dietro a Lui, per essere suoi amici, e poi incontrare con Lui i fratelli, in una vita offerta e donata a imitazione di Cristo.

In una teologia fondamentale del sacerdozio ministeriale, quindi, dovremmo innanzitutto porre come premessa, o per meglio dire come principio primo, che il presbitero è un chiamato da Dio, da Lui preso, afferrato dalle sue mani. L’iniziativa, quindi, è sempre di Dio che chiama, che prende con sé, che sceglie discepoli perché stiano con lui e che costituisce poi apostoli per una precisa missione.

È sempre salutare tornare spiritualmente alle origini della nostra vocazione, gustare nuovamente gli inizi del nostro cammino di sequela del Cristo, rinnovare quotidianamente il nostro primo “sì”, per non dimenticare mai chi ci ha voluti con sé.

Siamo dei chiamati, e Gesù ci ripete: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Gv 15, 16).

Dalla voce divina udita sul Tabor consegue un’altra dimensione costitutiva dell’identità sacerdotale: il prete è e rimane sempre un discepolo che «impara quotidianamente a entrare nei segreti del regno di Dio, vivendo una relazione profonda con Gesù» ( rfis , 61). Pertanto, come chierici sentiamo rivolti a noi in maniera particolare sia la proclamazione che l’invito espressi dalla voce del Padre risuonata sul monte: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!».

Dobbiamo umilmente coltivare l’intima persuasione che come «solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» ( gs , 22), così unicamente nell’ascolto della Parola di Cristo, contenuta nelle Sacre Scritture e mediata dall’insegnamento e dalla vita della Chiesa nei secoli, possiamo comprendere e poi vivere il dono e il mistero del nostro sacerdozio.

Le parole: «Questi è il Figlio mio, l’amato» esprimono la centralità di Cristo nella vita della Chiesa e, segnatamente, nell’esistenza del presbitero.

Papa Francesco, con parole profetiche, che hanno il sapore della sinodalità, ha ricordato che il sacerdote «è un contemplativo della Parola ed è anche un contemplativo del popolo» ( eg , 154); egli, infatti — insegnava San Paolo vi — impara insieme a tutti i fratelli a «saper leggere negli avvenimenti il messaggio di Dio» ( en , 33).

Nell’imperativo divino «Ascoltatelo!» è compresa quindi una esortazione all’umiltà, alla pazienza, all’adesione sincera a Dio che si rivela nelle Sacre Scritture e che non smette mai di rendersi presente nella storia per coloro che «ascoltano la sua voce» (cfr. Sal 94, 8).

In questa luce possiamo comprendere le parole che l’Apostolo Giacomo rivolge ai destinatari della sua Lettera, e che abbiamo ascoltato nella prima lettura: «Non siate in molti a fare da maestri». Infatti, dice Gesù «uno solo è il vostro Maestro, il Cristo» (Mt 23, 10) e «voi siete tutti fratelli» (Mt 23, 8).

La parola del sacerdote «attinge chiarezza di pensiero e forza persuasiva alla fonte della Parola del Dio vivo, nel Vangelo meditato e pregato, ritrovato nel Crocifisso e negli uomini, celebrato in gesti sacramentali mai ridotti a puro rito» (Papa Francesco, Discorso nella visita alla tomba di don Primo Mazzolari, 20 giugno 2017).

È quindi sempre una parola “seconda”, che viene dopo quella di Dio, passa attraverso la mediazione della Chiesa e, prima di venire annunciata, abita l’anima del ministro di Dio che l’ha letta, assimilata nella preghiera e condivisa con i fratelli.

Il celebre brano della prima lettura, sulla potenza della “lingua” umana, ci fa anche riflettere sulla pesante responsabilità che grava sul linguaggio del sacerdote: quante volte Papa Francesco ha richiamato circa il pericolo di quello che Egli chiama «il chiacchiericcio»!

Al contrario, in quanto chiamati ad ascoltare il Figlio prediletto del Padre, i presbiteri sentono rivolta a sé in prima persona l’esortazione dell’apostolo Paolo: «Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto, parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano» (Ef 4, 29).

Per questo «il prete è un uomo che, alla luce del Vangelo, diffonde il gusto di Dio intorno a sé e trasmette speranza ai cuori inquieti» (Discorso ai preti del Convitto San Luigi dei Francesi, 7 giugno 2021). Egli, infatti, è stato sul monte con Gesù e con Gesù scende dal monte per incontrare gli uomini, soprattutto i poveri.

C’è infatti anche la discesa da monte, sebbene vada sottolineato che i discepoli, per così dire “in pianura”, non rimangono da soli, ma Gesù è con loro, scende con loro, li accompagna e opera con loro (cfr. Atti 11, 21). Infatti, ricorda Papa Francesco, «è solo rimanendo radicati in Cristo che potete fare l’esperienza di una gioia che vi spinge a conquistare i cuori» (ib.)

Ecco allora un altro elemento che potrebbe rientrare nella teologia fondamentale del sacerdozio: il prete non vive una sorta di alternativa tra lo stare con Gesù, in disparte, ed essere con i fratelli. Il sacerdote è sempre con Gesù, anche mentre realizza una dimensione fondamentale della propria identità: vivere con i fratelli, caratteristica, peculiare soprattutto del sacerdote diocesano, che il Concilio Vaticano ii ha chiamato «carità pastorale» ( po , 14).

Per questo, «occorre aprirsi, dilatare l’orizzonte del ministero alle dimensioni del mondo, per raggiungere ogni figlio che Dio desidera abbracciare con il suo amore» (Papa Francesco, Al Pontificio Seminario Lombardo, 7 febbraio 2022).

Ci accompagni Maria Santissima, Madre dei sacerdoti e Regina degli Apostoli. Accompagni con il suo amore materno ogni sacerdote scelto dal Signore per continuare, nonostante la sua povertà, a renderlo presente nel mondo, nel tempo e nella storia, strumento di redenzione per sé e per i fratelli. Così sia.