L’esperienza della scuola in carcere a Rebibbia

Naufraghi
in cerca di una stella

 Naufraghi in cerca di una stella   QUO-041
19 febbraio 2022

Sono stato molto felice quando all’inizio di questo anno scolastico mi è stato proposto di assumere la direzione dell’Istituto John Von Neumann a Roma. Sono dirigente scolastico da pochi anni e avere l’opportunità di dirigere la più grande istituzione scolastica in carcere d’Italia ha suscitato in me inquietudine e gioia. Inquietudine per la complessità dell’incarico, gioia perché ritengo che, se mi venisse chiesto di costruire un lessico della scuola di oggi, a mio parere la prima parola necessaria da declinarvi e descrivere sarebbe “positività”.

La positività dell’essere Scuola si esprime, oggi come ieri, nel voler partecipare alla vita pubblica delle istituzioni scolastiche e nel voler continuare a narrare, a descrivere la propria esperienza di vita scolastica con gioia e curiosità sempre rinnovati, qualunque sia il proprio ruolo, studenti, docenti o presidi.

Sono tanti i docenti dell’Istituto Von Neumann, la cui sede principale è ubicata nel quartiere di San Basilio nella periferia est di Roma, sono insegnanti che hanno iniziato a lavorare in decenni diversi, tra la fine degli anni ‘80 del secolo scorso e quest’anno, sono quindi rappresentanti di almeno tre diverse generazioni di scuola.

Una caratteristica peculiare di chi entra in carcere come docente è quella che non ne vuole più uscire, sembra una sorta di scherzo ma non è così. Alcuni di loro, tra i quali un noto scrittore, lavorano a Rebibbia da un quarto di secolo, e hanno potuto assistere ai diversi mutamenti che hanno contraddistinto l’evoluzione dei rapporti tra amministrazione penitenziaria e scuola, hanno potuto osservare nel tempo crescere il numero delle realtà che gravitano sul carcere.

In questi ultimi anni è cresciuta l’attenzione dell’opinione pubblica e della politica per il complesso mondo del carcere, a seguito di alcuni eventi come il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari (del quale mi sono occupato in prima persona quando lavoravo con il ministro della salute), le recenti forti prese di posizione del presidente Mattarella e più di recente alcune belle produzioni cinematografiche merito della sensibilità di alcuni registi, ma il mondo articolato dei nostri Istituti penitenziari rimane lontano nelle sue dinamiche dalla comprensione di chi si trova all’esterno. Avendo modo di insegnare in una Certosa comprendo abbastanza il significato profondo della diversità tra chi vive in reclusione (in questo caso per scelta) e quello di fuori, sullo svilupparsi di una distanza progressiva nel lessico e nello sguardo, il dilatarsi dei tempi e la possibilità di incontrare se stessi a un livello di profondità che fuori non è possibile.

Il carcere di Rebibbia è una realtà articolata, una cittadella a se stante, dietro le alte mura che la cingono comprende in realtà quattro diverse istituzioni carcerarie: il Nuovo complesso è il più grande, con più di mille detenuti di tutte le tipologie, dall’alta sicurezza a coloro i quali hanno compiuti reati comuni. Quindi viene il Carcere femminile, che accoglie numerose tipologie di reati, compiuti da fanciulle, madri, persone persino quasi anziane, le storie più diverse di disagio, crimine, lontananza e nostalgia. Quindi proseguendo lungo la via Bartolo Longo si incontra l’ingresso della Casa di reclusione, che accoglie i condannati in via definitiva a pene anche molto lunghe, con reati molto gravi da espiare. Alla fine della via si incontra la Terza Casa, l’Istituzione più innovativa, dedicata alla custodia attenuata di chi ha scelto di partecipare a numerose iniziative formative organizzate dalla direzione.

Sin dai primi colloqui che ho avuto con i nostri docenti di Rebibbia mi sono convinto di come anche loro credano fermamente nella necessaria anteriorità dell’ottimismo, nel bisogno di vincere l’isolamento che uccide dentro molti nostri colleghi bruciandone l’entusiasmo e trasformandoli in meri burocrati o funzionari di un apparato. Non dobbiamo lasciare che le circostanze, per quanto drammatiche, spengano la luce che ardeva negli occhi di coloro i quali si sono accostati al mondo della scuola non come a un lavoro qualsiasi, ma come una sorta di laica missione nel mondo della reclusione.

Per questo l’altra parola fondamentale di un possibile lessico rinnovato della scuola potrebbe essere Comunità. Essere comunità significa confrontarsi continuamente, condividere scelte critiche e proposte progettuali.

La stessa luce negli occhi l’ho vista chiaramente in alcuni detenuti, in particolare un gruppo che al Nuovo complesso chiamo “gli accademici”, nostri ex studenti che hanno scelto di laurearsi, in Giurisprudenza, Economia, Filosofia. Diversi tra loro sono ergastolani, sono persone che probabilmente non termineranno la reclusione se non tra numerosi anni, ciononostante ritengono comunitariamente che la loro esperienza di studenti sia qualcosa da mettere a disposizione degli altri, ritenendosi, come hanno voluto intitolare un loro libro collettivo, “naufraghi in cerca di una stella”. Vado spesso in carcere, cerco di incontrare i detenuti e di parlare con loro, perché ritengo che essere compagni di viaggio per queste persone, scrutare insieme le stelle, migliorare gli ambienti scolastici nella reclusione significa attuare al più alto livello il dettato costituzionale e il nostro compito di docenti.

di Giovanni Cogliandro
Vicepresidente dell’Associazione nazionale presidi di Roma