Hic sunt leones

La resilienza africana contro il covid-19

An elderly man questions a healthcare worker about the different vaccines available for them outside ...
18 febbraio 2022

L’esito della campagna vaccinale in Africa per contrastare il covid-19 ha lasciato molto a desiderare. Basta dare un’occhiata ai dati pubblicati alla metà di febbraio dall’Africa Cdc (Centres for Disease Control and Prevention) per rendersene conto: circa il 17 per cento della popolazione ha ricevuto almeno una dose, mentre poco più del 12 per cento ha completato il ciclo vaccinale. È comunque importante leggere i valori epidemiologici registrati nel continente per comprendere la portata e l’impatto della pandemia. Ciò che colpisce è il fatto che la situazione, a livello continentale, è molto diversa da come potremmo immaginarla.

In un lungo articolo scientifico pubblicato sulla rivista Bmc Medicine, Kondwani Jambo, immunologo del Malawi-Liverpool-Wellcome Trust Clinical Research Programme, ha illustrato una situazione che egli stesso non avrebbe mai immaginato. Ma andiamo per ordine. Prima dell’avvento di Omicron, il Malawi non sembrava essere stato particolarmente interessato dal virus covid-19. Anche a luglio dello scorso anno, quando in questo Paese dell’Africa Australe erano stati registrati casi di coronavirus, le autorità sanitarie locali erano convinte che solo una piccola percentuale dei malawiani fosse stata infettata.

In sostanza, coloro che risultavano positivi erano circa il 10 per cento della popolazione. Questo dato peraltro era confermato dal basso numero di ricoveri nel Paese africano. Sta di fatto che l’immunologo malawiano di cui sopra, l’anno scorso aveva deciso di tentare di determinare quante persone nel suo Paese fossero state infettate dal coronavirus dall’inizio della pandemia. Il dottor Jambo, che lavora per il programma di ricerca clinica Malawi-Liverpool-Wellcome Trust, riteneva che il numero totale di casi sarebbe stato superiore ai numeri ufficiali. Ma il suo studio ha rivelato che la portata della diffusione era ben al di là di qualsiasi previsione. Attraverso un’indagine accurata sui campioni di sangue che erano stati prelevati dai malawiani mese dopo mese mediante il servizio della banca nazionale del sangue. L’intento era quello di capire quanti di quei campioni avessero anticorpi a seguito dell’infezione da Sars-CoV-2. Ecco che allora Jambo e i suoi collaboratori hanno scoperto che la maggioranza dei malawiani era stata infettata molto prima che emergesse omicron con la variante delta. Indagando sulla presenza di anticorpi fra i donatori di sangue, l’immunologo ha riscontrato che l’81 per cento della popolazione di Blantyre, principale polo commerciale e industriale del paese, aveva contratto il Sars-Cov-2 nell’estate 2021, mentre la stessa percentuale modulata su sei mesi fa scendeva al 71 per cento nella città di Mzuzu.

C’è da rilevare che il Malawi è un Paese giovanissimo, basti pensare che l’età media è di circa 18 anni. Ciò suggerisce che la maggior parte delle infezioni prima dell’arrivo di omicron erano probabilmente asintomatiche e che dunque difficilmente sarebbero state registrate nei conteggi ufficiali. Questa fenomenologia ha fatto sì che la gente non si sentisse così male da avvertire l’esigenza del ricovero in ospedale. Peraltro i test per determinare la presenza del coronavirus scarseggiavano in Malawi, come in altre parti dell’Africa e quindi erano generalmente utilizzati solo per le persone con sintomi gravi o che avevano bisogno di test per poter viaggiare. Da rilevare che studi simili, come quello condotto in Malawi, sono avvenuti in altri Paesi africani, tra cui il Kenya, il Madagascar, il Mali e il Sud Africa. Studiosi del National Institute of Allergy and Infectious Diseases (Niaid) degli Stati Uniti e i loro colleghi del Malaria Research Training Center di Bamako, nel Mali, hanno effettuato nei mesi scorsi lo screening di circa 2.700 persone in aree urbane e rurali alla ricerca di anticorpi del Sars-Cov-2, rilevando che il 60 per cento circa del campione era stato precedentemente infettato, con tassi ancora più alti in alcune zone del Paese saheliano. Da quanto detto si potrebbe evincere che il continente africano avrebbe raggiunto l’immunità di gregge senza dover ricorrere ad una campagna vaccinale come quella allestita in Europa o negli Stati Uniti. In effetti il tema è molto complesso in quanto è stato ampiamente dimostrato che affidarsi alla cosiddetta libera circolazione del virus, non è mai una scelta ottimale (soprattutto per i soggetti fragili) e comunque risulta fattibile solo a determinate condizioni che non possono essere solo di ordine anagrafico. Inoltre la debolezza del sistema sanitario africano è tale per cui nessuno sa davvero con certezza quanto siano stati e siano tuttora sottostimati i dati su contagi e decessi raccolti da Africa Cdc attraverso i governi dell’Unione africana (Ua).

Sono molte le istituzioni scientifiche a livello internazionale che si stanno interrogando sulla resilienza delle popolazioni afro al coronavirus anche perché alla prova dei fatti il resto del mondo ha comunque pagato un prezzo molto alto in termini di vite umane. Ad esempio, stando ai risultati di una ricerca illustrata recentemente al meeting annuale dell’American Society of Tropical Medicine and Hygiene (Astmh), i pazienti covid-19 con alti tassi di esposizione alla malaria hanno avuto meno probabilità di soffrire di malattie gravi o di morte rispetto ai pazienti con basse esposizioni.

La professoressa Jane Achan, curatrice dello studio ha affermato che «la malaria può avere un effetto protettivo», spiegando che «su 597 pazienti ricoverati con covid-19, solo il 5 per cento di loro, con livelli elevati di precedenti infezioni da malaria, ha subito esiti gravi o critici, rispetto al 30 per cento dei pazienti con livelli relativamente bassi di esposizione alla malaria». Nel corso dei prossimi mesi ed anni è probabile che nuove ricerche consentiranno di avere un quadro più chiaro su quanto accaduto in Africa, anche perché vi possono essere altri fattori che hanno giocato un ruolo non indifferente in questi ultimi due anni di pandemia. Come infatti abbiamo visto finora, descrivere l’impatto dell’epidemia di coronavirus in Africa impone di riconoscere la condotta selettiva del morbo, mutevole in spazi e tempi dissimili, con effetti eterogenei a seconda del contesto preesistente. Ad esempio, i disturbi cardiovascolari e quelli respiratori, che incrementano le possibilità di decesso nei pazienti affetti da Sars-Cov-2, non sono frequenti nelle popolazioni afro. Inoltre, vi sono alcuni ricercatori statunitensi e africani i quali stanno approfondendo la possibilità, almeno in parte riscontrata su un campione della popolazione sierraleonese, di una immunità acquisita e dunque protettiva a seguito di altri tipi di coronavirus, attualmente sconosciuti e circolanti già da tempo nel mondo e forse su larga scala in Africa. Per non parlare poi della recente scoperta di un particolare segmento di Dna che protegge dall’infezione da covid-19. Ne dà conto su Nature Genetics, un gruppo di ricercatori del Karolinska Institutet di Stoccolma, in Svezia, a capo di un team internazionale. Gli studiosi hanno rilevato tra l’altro che su un totale di 2.787 pazienti covid-19 ospedalizzati di origine africana, l’80 per cento di loro portava la variante del gene protettivo (rs10774671-G) che determina la lunghezza della proteina codificata dal gene Oas1, capace di contrastare il Sars-Cov-2.

Detto questo, non dobbiamo dimenticare che, dal punto di vista sanitario, l’Africa deve comunque continuare la propria battaglia contro le malattie tropicali neglette, che si sommano all’Aids, alla tubercolosi e alla malaria, senza dimenticare il problema dei farmaci contraffatti che inquinano i mercati locali e minacciano la salute pubblica. Una cosa è certa: due anni or sono, all’insorgere della pandemia, molti studiosi ritenevano che il covid-19 avrebbe causato un’ecatombe in Africa. Ma non è stato così perché la sua gente ostenta, come sanno bene i nostri missionari, una resilienza che è amore per la vita.

di Giulio Albanese