Hic sunt leones

Il diritto al lavoro in Africa

epa09734860 Indonesian laborers work at a road construction site in Depok, Indonesia, 07 February ...
11 febbraio 2022

Una delle sfide maggiori che l’Africa deve affrontare, in particolare la macro regione subsahariana, è l’affermazione del sacrosanto diritto al lavoro. Attualmente, il 70 per cento dei poveri del mondo vive in questo vasto continente e i progressi compiuti negli ultimi anni nella riduzione della povertà sono in parte già compromessi dalle conseguenze della crisi economica scatenata dal famigerato covid-19. Si tratta di uno scenario sintomatico della sofferenza che investe — e non da oggi — il cosiddetto mercato del lavoro intra-africano. Stando ai dati forniti dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), il 90 per cento dei posti di lavoro nell’Africa subsahariana si colloca nel settore informale.

Secondo l’Oil, per «economia informale» si intendono «tutte quelle attività economiche svolte da lavoratori e unità produttive che — nella legislazione o in pratica — non sono sufficientemente coperte da sistemi regolari, o non lo sono affatto». Escludendo il settore agricolo che è predominante nella macro regione, l’informalità riguarda il 75 per cento dei lavoratori impegnati in altri settori. Non solo. La percentuale degli occupati in attività informali, a livello continentale, sale al 95 per cento nel caso dei giovani lavoratori. Considerando che essi rappresentano la maggioranza della popolazione a livello continentale, l’accesso all’istruzione e la creazione di nuovi posti di lavoro per i giovani sono e restano compiti urgenti della politica.

Per poter promuovere un ceto medio dotato di un discreto potere d’acquisto sarebbe pertanto necessario ampliare il settore formale al fine di accrescere il sostrato fiscale e sviluppare sistemi di previdenza sociale. Da rilevare che a medio termine, stando alle previsioni di crescita demografica della popolazione africana, la categoria di persone che lieviterà più rapidamente nei prossimi anni sarà quella della fascia lavorativa compresa tra i 25 e 64 anni. Rispetto al totale della popolazione africana, che oggi è di oltre un miliardo e 300 milioni, la loro quota dovrebbe passare dal 35 per cento del 2019 al 43 per cento nel 2050. Un simile sviluppo demografico potrebbe rappresentare un vero e proprio dividendo demografico, ossia un incremento della manodopera che produce beni, investe e risparmia.

Perché si verifichi una situazione di questo tipo è tuttavia necessario che le condizioni economiche e politiche siano stabili e la crescita demografica non subisca drastiche impennate. Se questo non avverrà i redditi familiari continueranno ad essere bassi sia nelle periferie delle grandi città, come anche nelle zone rurali, unitamente all’assenza di quei meccanismi di protezione sociale indispensabili per contrastare la povertà.

La generale mancanza di un’opportunità lavorativa dignitosa colpisce uomini e donne nell’Africa subsahariana, dove i divari di genere tendono ad essere più ridotti rispetto al Nord Africa. Questo, tuttavia, non implica che le donne non debbano affrontare svantaggi e discriminazioni. Infatti, il divario di genere subsahariano nei lavori informali ammonta a 6 punti percentuali (92,1 per cento per le donne, mentre per gli uomini è del 86,4 per cento). Il problema è che nel mondo le più svariate forme di lavoro informale si vanno diffondendo un po’ ovunque e l’Africa è il continente maggiormente penalizzato da questo fenomeno. Basti pensare ai giovani impiegati nell’estrazione del coltan, lega naturale di columbio e tantalio, presente nel settore nordorientale della Repubblica Democratica del Congo, utilizzata per i più svariati scopi industriali che vanno dall’assemblaggio dei satelliti spaziali con l’utilizzo del columbio, alla realizzazione della componentistica di cellulari, tablet, computer e altri gadget elettronici mediante il tantalio. E cosa dire della manodopera a basso prezzo impiegata nelle miniere di cobalto, una delle materie prime fondamentali per la realizzazione delle batterie agli ioni di litio che alimentano le auto elettriche e i dispositivi elettronici di largo consumo, ovvero tutti quegli apparati e gadget di quel new deal ecologico che dovrebbe, nelle intenzioni di molti governi tra cui quelli dell’Unione europea (Ue), stimolare la ripresa economica post-coronavirus un po’ a tutte le latitudini.

Per non parlare di quei ragazzi e ragazze del Karamoja, regione nordorientale dell’Uganda, dove la manovalanza locale serve per sfruttare le immense ricchezze del sottosuolo che vanno dall’uranio al cobalto; dall’oro all’argento; dalla grafite al platino. «La nostra gente viene lasciata entrare liberamente nelle miniere a cielo aperto. Tutte persone che restano fino a 10 ore al giorno sotto al sole, malpagate e a cottimo». A parlare è monsignor Damiano Guzzetti, vescovo comboniano di Moroto, il quale precisa che i lavoratori in questione sono persone rese invisibili dall’assenza di garanzie contrattuali e dalla totale mancanza delle più elementari forme di welfare. Emblematico è l’esempio dei lavoratori (operaie e operai) dell’industria dell’abbigliamento meno pagati al mondo lavorano nelle industrie tessili dell’Etiopia. Lo rivela uno studio pubblicato nel 2019 dal centro americano, New York University Stern Center for Business and Human Rights (https://bhr.stern.nyu.edu/), che ha messo a confronto orari e salari in tutto il mondo.

Nell’indagine, rilanciata con dovizia di particolari dal mensile «Africa», gli esperti denunciano le responsabilità di brand conosciuti a livello internazionale come H&M, Gap, Calvin Klein e Tommy Hilfiger. Tutte aziende presenti nel parco industriale di Hawassa, un distretto specializzato nell’Etiopia meridionale dove sono impiegati circa 25.000 operai e operaie. «Il desiderio del governo di Addis Abeba di attrarre investimenti stranieri per creare il “Made in Etiopia” ha spinto a promuovere livelli salariali di base inferiori a quelli di qualunque altro Paese produttore di abbigliamento. Al momento i dipendenti etiopi lavorano per meno di un terzo degli stipendi dei lavoratori del Bangladesh (che guadagnano 95 dollari al mese)», si legge nello studio. «Ora la retribuzione è equivalente a 26 dollari al mese, una cifra che non permette ai lavoratori di garantirsi vitto, alloggio o mezzi di trasporto dignitosi».

C'è comunque da considerare che la sospensione dei benefici, avvenuta lo scorso anno, ai sensi dell’African Growth and Opportunity Act (Agoa) nei confronti del governo di Addis Abeba da parte degli Stati Uniti, minaccia seriamente le aspirazioni dell'Etiopia a diventare comunque un polo produttivo.

A questo punto viene quasi spontaneo rammentare il contenuto dell’articolo 23 della Dichiarazione universale dei diritti umani che recita come segue: «Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro e alla protezione contro la disoccupazione. Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro. Ogni individuo che lavora ha diritto ad una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale. Ogni individuo ha diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi».

Lungi da ogni retorica, il messaggio che proviene dal Diritto internazionale è chiaro: come scriveva il compianto professor Antonio Papisca, già docente di Relazioni internazionali e Tutela internazionale dei diritti umani: «Il settore del lavoro non può essere lasciato al libero arbitrio del mercato, ma deve costituire oggetto di politiche pubbliche nel quadro di una più ampia programmazione di stato sociale». Questa è una responsabilità che certamente ricade sulle spalle delle classi dirigenti africane, ma non estranea ai grandi attori internazionali, chiamati a dimostrare concretamente la loro volontà di aiutare l’Africa.

di Giulio Albanese