Hic sunt leones

Il ruolo della società civile in Africa

A family try to cross a flooded area after the Nile river overflowed after continuous heavy rain ...
04 febbraio 2022

In Africa si sente spesso parlare di società civile. Lo sanno bene i nostri missionari e volontari. Si tratta di un’espressione lessicale che è diventata però ricorrente, a livello continentale, solo verso la fine degli anni Ottanta attraverso l’interesse e gli orientamenti dei donatori internazionali, ma soprattutto a seguito dei processi di transizione e partecipazione democratica che gradualmente si stavano manifestando nel continente.

A questo proposito sono illuminanti le considerazioni di Jean-François Bayart, in «La revanche des sociétés africaines», Politique africaine, (no 11, septembre 1983, p. 95-127).

Rimane il fatto che solo a partire dal 1996 il ruolo della società civile sarà al centro delle raccomandazioni della Banca mondiale, in una prospettiva rivolta al consolidamento democratico, dinamico e diversificato, come nel caso degli obiettivi dei programmi postbellici quali il disarmo dei combattenti, la ricostruzione dell’amministrazione pubblica o l’indizione e organizzazione di libere elezioni.

Si era comunque già da tempo registrato, da parte della società civile africana, un andamento alternante, nei processi di sostituzione delle élite tradizionali per poi appropriarsi (in inglese empowerment) dei luoghi di decisione. Questo programma di promozione dei diritti civili ha funzionato discretamente durante la breve fase ascendente delle transizioni democratiche, dalla fine del 1989 al 1993-1994 circa. Inoltre, è stato teorizzato a posteriori (dal 1995) in un momento di riflusso della democratizzazione. Successivamente, gli alti e bassi sono stati scanditi, a seconda dei Paesi, da fasi di regresso e successivo progresso.

Attualmente, il significato che viene attribuito alla società civile è molto estensivo. A volte alcuni autori lo attribuiscono al quadro sociale di un determinato Paese (compresa la sfera privata), altri lo riferiscono esplicitamente a quelle migliaia di organizzazioni che compongono il settore no-profit. Esso include organizzazioni sia formali sia informali che operano in tutti i settori (dalla promozione dei diritti umani e civili alla sanità pubblica, passando per la finanza, l’agricoltura e la tecnologia) e che rappresentano molteplici categorie sociali: dalle donne, ai giovani, dagli agricoltori, ai poveri, dai disabili ai profughi.

Ecco che allora la società civile africana riveste un duplice ruolo, critico e propositivo, per il benessere sociale ed economico delle nazioni. A tale proposito è importante rilevare che la partecipazione delle organizzazioni della società civile rientra tra i principi stabiliti già nel preambolo dell’atto costitutivo dell’Unione africana (Ua) dove si afferma che i capi di Stato e di governo si dichiarano guidati dalla necessità di realizzare una collaborazione fattiva tra i governi nazionali e tutte le componenti della società civile, in particolare le donne, i giovani ed il settore privato con l’obiettivo di rafforzare la solidarietà e la coesione tra i loro popoli.

Inoltre, nel dispositivo, all’art. 3 [lettere (g) e (h)] la Ua intende promuovere la partecipazione popolare ed il buon governo, mentre all’art. 4 indica tra i propri principi la partecipazione dell’intero consesso dei popoli afro nelle attività dell’Unione. Queste indicazioni si concretizzano principalmente nella partecipazione delle organizzazioni della società civile (Ong) alla Commissione africana dei diritti dell’uomo e dei popoli e al Consiglio economico sociale e culturale (Ecosocc).

Ma per comprendere il significato della posta in gioco, è sufficiente leggere la dichiarazione siglata da un’ampia alleanza della società civile e delle principali organizzazioni religiose di tutta l’Africa, durante la conferenza della società civile «Venro Africa-Europa» a Berlino, in Germania, il 16 ottobre 2020 (https://venro.org/fileadmin/Programme_Civil_Society_AU-EU_Conference.pdf), in vista del vertice Unione europea-Unione africana, che è stato rinviato al 17 al 18 febbraio 2022. I firmatari, con il sostegno del Cidse, (Coopération Internationale pour le Développement et la Solidarité, organizzazione che riunisce le agenzie di sviluppo cattoliche dell’Europa e del Nord America) e della Rete Aefjn (Africa Europe Faith and Justice Network), hanno rilevato che mentre nelle relazioni Europa– Africa «l’obiettivo dichiarato è quello di “costruire un futuro più prospero, più pacifico e più sostenibile per tutti”, le cinque partnership proposte su energia, digitalizzazione, investimenti, pace e migrazione, tacciono sui bisogni dei più del 60 per cento delle famiglie africane che dipendono dall’agricoltura familiare e dalla produzione alimentare su piccola scala per il loro sostentamento».

Il documento in questione, espressione qualificata dei movimenti sociali e delle chiese locali in Africa, finalizzato alla promozione della sovranità alimentare e a contrastare l’accaparramento delle terre (in inglese land grabbing), purtroppo non ha trovato spazio sulla grande stampa internazionale e meriterebbe un’attenta disamina per la sua straordinaria carica profetica.

In esso, ad esempio si legge che: «mentre i piccoli agricoltori, i pastori, i pescatori artigianali e le comunità forestali dominano la demografia dell’Africa rurale, gli spazi politici sono affollati da attori esterni: filantropi, imprese, agenzie di aiuti multilaterali e bilaterali. Come risultato, la maggior parte dei Paesi del continente sono stati indotti — spesso da iniziative del Nord basate su investimenti privati e partenariati pubblico-privato — a sovvenzionare un modello di sviluppo agricolo basato su input esterni, orientato all’esportazione e alla monocoltura di prodotti di base, e a fare affidamento pesantemente sulla concessione di terreni per lo sfruttamento di legname, petrolio, gas e minerali per generare valuta estera, spesso senza o nonostante le valutazioni di impatto ambientale.

I tassi di rendimento non tengono conto della vera contabilità dei costi, poiché gli impatti sociali e ambientali sono esternalizzati». Una cosa è certa: quando si parla di stabilità, sostenibilità e crescita in Africa quello che i decisori politici hanno in mente si riferisce spesso, stando ai fatti, al ruolo rivestito dalle istituzioni statuali e dal settore privato, mettendo all’angolo la società civile. Pertanto è ragionevole chiedersi se sia possibile migliorare davvero su questa strada la qualità e la legittimità del lavoro parlamentare nell’esclusivo interesse della Res publica. In particolare, l’istituzione parlamentare dovrebbe favorire al massimo il conseguimento di valori quali la trasparenza, la responsabilità e l’apertura della governance moderna alla società civile.

Il futuro va visto, e non solo in Africa, nella sinergia tra governi, imprenditori, gruppi, associazioni, movimenti laici e religiosi sui temi d’interesse popolare, laddove il popolare va ben al di là dei confini nazionali come nel caso della cooperazione allo sviluppo.

L’architettura di un nuovo ordine politico, che combini al proprio interno forme di governo parlamentare formale e di governance aperta alla società civile rappresenta il cammino per la realizzazione di un’organizzazione mondiale davvero super partes, anche se la strada, inutile nasconderselo, si profila tutta in salita.

Non va infatti dimenticato che il concetto stesso di governance include nella sua matrice ambiguità congenite e strutturali che esigono prudenza. In circolazione da tempo in ambienti politici, accademici, finanziari e industriali, la governance, in senso generico, è stata intesa grosso modo nella stessa maniera in cui nel 1986 la definisce il dizionario Webster: «L’atto o il processo di governare, specificatamente nel senso di controllo e direzione autorevole». Autorevole, non autoritaria.

In tal modo, quindi, la governance si lega essenzialmente all’efficacia dell’azione del potere esecutivo. Ma il British Council afferma che «la governance include l’interazione tra istituzioni formali e quelle della società civile, riferendosi a un processo dove elementi della società saldano potere, autorità e influenza e mettono in atto politiche e decisioni concernenti la vita pubblica».

Bisogna comunque rilevare che oggi, come già detto, la governance sembra assomigliare nella possibile prassi attuativa più a una governance di tipo corporate (d’impresa) che a una sia pur vaga di tipo anche politico e solidale. Non v’è dubbio allora che la missione della società civile in Africa, al cui interno operano diverse realtà di matrice cattolica, ha il compito di affermare un nuovo paradigma che, come indica la dottrina sociale della Chiesa riconosca sempre e comunque il primato della persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio.

di Giulio Albanese