Nella festa della Presentazione del Signore la celebrazione della Giornata mondiale della vita consacrata
L’omelia durante la messa nella basilica Vaticana

Superare inerzie e rigidità per rinnovare
la vita consacrata

 Superare inerzie e rigidità per rinnovare la vita consacrata  QUO-027
03 febbraio 2022

«Niente inerzie del passato, niente rigidità. Attraverso le crisi lo Spirito invita a rinnovare le nostre comunità». È l’esortazione rivolta da Papa Francesco alla vita consacrata in occasione della Giornata mondiale ad essa dedicata. Nella circostanza, come da tradizione, il Pontefice ha celebrato nel pomeriggio del 2 febbraio, nella basilica Vaticana, la messa per la festa della Presentazione del Signore. Ecco la sua omelia.

Due anziani, Simeone e Anna, attendono nel tempio il compimento della promessa che Dio ha fatto al suo popolo: la venuta del Messia. Ma la loro attesa non è passiva, è piena di movimento. Seguiamo dunque i movimenti di Simeone: egli dapprima è mosso dallo Spirito, poi vede nel Bambino la salvezza e finalmente lo accoglie tra le braccia (cfr. Lc 2, 26-28). Fermiamoci semplicemente su queste tre azioni e lasciamoci attraversare da alcune domande importanti per noi, in particolare per la vita consacrata.

La prima è: da che cosa siamo mossi? Simeone si reca al tempio «mosso dallo Spirito» (v. 27). Lo Spirito Santo è l’attore principale della scena: è Lui che fa ardere nel cuore di Simeone il desiderio di Dio, è Lui che ravviva nel suo animo l’attesa, è Lui che spinge i suoi passi verso il tempio e rende i suoi occhi capaci di riconoscere il Messia, anche se si presenta come un bambino piccolo e povero. Questo fa lo Spirito Santo: rende capaci di scorgere la presenza di Dio e la sua opera non nelle grandi cose, nell’esteriorità appariscente, nelle esibizioni di forza, ma nella piccolezza e nella fragilità. Pensiamo alla croce: anche lì è una piccolezza, una fragilità, anche una drammaticità. Ma lì c’è la forza di Dio. L’espressione “mosso dallo Spirito” ricorda quelle che nella spiritualità si chiamano “mozioni spirituali”: sono quei moti dell’animo che avvertiamo dentro di noi e che siamo chiamati ad ascoltare, per discernere se provengono dallo Spirito Santo o da altro. Stare attenti alle mozioni interiori dello Spirito.

Allora ci chiediamo: da chi ci lasciamo principalmente muovere: dallo Spirito Santo o dallo spirito del mondo? È una domanda su cui tutti dobbiamo misurarci, soprattutto noi consacrati. Mentre lo Spirito porta a riconoscere Dio nella piccolezza e nella fragilità di un bambino, noi a volte rischiamo di pensare alla nostra consacrazione in termini di risultati, di traguardi, di successo: ci muoviamo alla ricerca di spazi, di visibilità, di numeri: è una tentazione. Lo Spirito invece non chiede questo. Desidera che coltiviamo la fedeltà quotidiana, docili alle piccole cose che ci sono state affidate. Com’è bella la fedeltà di Simeone e Anna! Ogni giorno si recano al tempio, ogni giorno attendono e pregano, anche se il tempo passa e sembra non accadere nulla. Aspettano tutta la vita, senza scoraggiarsi e senza lamentarsi, restando fedeli ogni giorno e alimentando la fiamma della speranza che lo Spirito ha acceso nel loro cuore.

Possiamo chiederci, noi, fratelli e sorelle: che cosa muove i nostri giorni? Quale amore ci spinge ad andare avanti? Lo Spirito Santo o la passione del momento, ossia qualsiasi cosa? Come ci muoviamo nella Chiesa e nella società? A volte, anche dietro l’apparenza di opere buone, possono nascondersi il tarlo del narcisismo o la smania del protagonismo. In altri casi, pur portando avanti tante cose, le nostre comunità religiose sembrano essere mosse più dalla ripetizione meccanica — fare le cose per abitudine, tanto per farle — che dall’entusiasmo di aderire allo Spirito Santo. Farà bene, a tutti noi, verificare oggi le nostre motivazioni interiori, discerniamo le mozioni spirituali, perché il rinnovamento della vita consacrata passa anzitutto da qui.

Una seconda domanda: che cosa vedono i nostri occhi? Simeone, mosso dallo Spirito, vede e riconosce Cristo. E prega dicendo: «I miei occhi hanno visto la tua salvezza» (v. 30). Ecco il grande miracolo della fede: apre gli occhi, trasforma lo sguardo, cambia la visuale. Come sappiamo da tanti incontri di Gesù nei Vangeli, la fede nasce dallo sguardo compassionevole con cui Dio ci guarda, sciogliendo le durezze del nostro cuore, risanando le sue ferite, dandoci occhi nuovi per vedere noi stessi e il mondo. Occhi nuovi su noi stessi, sugli altri, su tutte le situazioni che viviamo, anche le più dolorose. Non si tratta di uno sguardo ingenuo, no, è sapienziale; lo sguardo ingenuo fugge la realtà o finge di non vedere i problemi; si tratta invece di occhi che sanno “vedere dentro” e “vedere oltre”; che non si fermano alle apparenze, ma sanno entrare anche nelle crepe della fragilità e dei fallimenti per scorgervi la presenza di Dio.

Gli occhi anziani di Simeone, pur affaticati dagli anni, vedono il Signore, vedono la salvezza. E noi? Ognuno può domandarsi: che cosa vedono i nostri occhi? Quale visione abbiamo della vita consacrata? Il mondo spesso la vede come uno “spreco”: “Ma guarda, quel ragazzo così bravo, farsi frate”, o “una ragazza così brava, farsi suora… È uno spreco. Se almeno fosse brutto o brutta... No, sono bravi, è uno spreco”. Così pensiamo noi. Il mondo la vede forse come una realtà del passato, qualcosa di inutile. Ma noi, comunità cristiana, religiose e religiosi, che cosa vediamo? Siamo rivolti con gli occhi all’indietro, nostalgici di ciò che non c’è più o siamo capaci di uno sguardo di fede lungimirante, proiettato dentro e oltre? Avere la saggezza del guardare — questa la dà lo Spirito —: guardare bene, misurare bene le distanze, capire le realtà. A me fa tanto bene vedere consacrati e consacrate anziani, che con occhi luminosi continuano a sorridere, dando speranza ai giovani. Pensiamo a quando abbiamo incontrato sguardi simili e benediciamo Dio per questo. Sono sguardi di speranza, aperti al futuro. E forse ci farà bene, in questi giorni, fare un incontro, fare una visita ai nostri fratelli religiosi e sorelle religiose anziani, per guardarli, per parlare, per domandare, per sentire cosa pensano. Credo che sarà una buona medicina.

Fratelli e sorelle, il Signore non manca di darci segnali per invitarci a coltivare una visione rinnovata della vita consacrata. Ci vuole, ma sotto la luce, sotto le mozioni dello Spirito Santo. Non possiamo fare finta di non vedere questi segnali e continuare come se niente fosse, ripetendo le cose di sempre, trascinandoci per inerzia nelle forme del passato, paralizzati dalla paura di cambiare. L’ho detto tante volte: oggi, la tentazione di andare indietro, per sicurezza, per paura, per conservare la fede, per conservare il carisma fondatore... È una tentazione. La tentazione di andare indietro e conservare le “tradizioni” con rigidità. Mettiamoci in testa: la rigidità è una perversione, e sotto ogni rigidità ci sono dei gravi problemi. Né Simeone né Anna erano rigidi, no, erano liberi e avevano la gioia di fare festa: lui, lodando il Signore e profetizzando con coraggio alla mamma; e lei, come buona vecchietta, andando da una parte all’altra dicendo: “Guardate questi, guardate questo!”. Hanno dato l’annuncio con gioia, gli occhi pieni di speranza. Niente inerzie del passato, niente rigidità. Apriamo gli occhi: attraverso le crisi — sì, è vero, ci sono le crisi —, i numeri che mancano — “Padre, non ci sono vocazioni, adesso andremo in capo al mondo per vedere se ne troviamo qualcuna” —, le forze che vengono meno, lo Spirito invita a rinnovare la nostra vita e le nostre comunità. E come facciamo questo? Lui ci indicherà il cammino. Noi apriamo il cuore, con coraggio, senza paura. Apriamo il cuore. Guardiamo a Simeone e Anna: anche se sono avanti negli anni, non passano i giorni a rimpiangere un passato che non torna più, ma aprono le braccia al futuro che viene loro incontro. Fratelli e sorelle, non sprechiamo l’oggi guardando a ieri, o sognando di un domani che mai verrà, ma mettiamoci davanti al Signore, in adorazione, e domandiamo occhi che sappiano vedere il bene e scorgere le vie di Dio. Il Signore ce li darà, se noi lo chiediamo. Con gioia, con fortezza, senza paura.

Infine, una terza domanda: che cosa stringiamo tra le braccia? Simeone accoglie Gesù tra le braccia (cfr. v. 28). È una scena tenera e densa di significato, unica nei Vangeli. Dio ha messo suo Figlio tra le nostre braccia perché accogliere Gesù è l’essenziale, il centro della fede. A volte rischiamo di perderci e disperderci in mille cose, di fissarci su aspetti secondari o di immergerci nelle cose da fare, ma il centro di tutto è Cristo, da accogliere come il Signore della nostra vita.

Quando Simeone prende fra le braccia Gesù, le sue labbra pronunciano parole di benedizione, di lode, di stupore. E noi, dopo tanti anni di vita consacrata, abbiamo perso la capacità di stupirci? O abbiamo ancora questa capacità? Facciamo un esame su questo, e se qualcuno non la trova, chieda la grazia dello stupore, lo stupore davanti alle meraviglie che Dio sta facendo in noi, nascoste come quella del tempio, quando Simeone e Anna incontrarono Gesù. Se ai consacrati mancano parole che benedicono Dio e gli altri, se manca la gioia, se viene meno lo slancio, se la vita fraterna è solo fatica, se manca lo stupore, non è perché siamo vittime di qualcuno o di qualcosa, il vero motivo è che le nostre braccia non stringono più Gesù. E quando le braccia di un consacrato, di una consacrata non stringono Gesù, stringono il vuoto, che cercano di riempire con altre cose, ma c’è il vuoto. Stringere Gesù con le nostre braccia: questo è il segno, questo è il cammino, questa è la “ricetta” del rinnovamento. Allora, quando non abbracciamo Gesù, il cuore si chiude nell’amarezza. È triste vedere consacrati, consacrate amari: si chiudono nella lamentela per le cose che puntualmente non vanno, in un rigore che ci rende inflessibili, in atteggiamenti di pretesa superiorità. Sempre si lamentano di qualcosa: del superiore, della superiora, dei fratelli, della comunità, della cucina... Se non hanno lamentele non vivono. Ma noi dobbiamo stringere Gesù in adorazione e domandare occhi che sappiano vedere il bene e scorgere le vie di Dio. Se accogliamo Cristo a braccia aperte, accoglieremo anche gli altri con fiducia e umiltà. Allora i conflitti non inaspriscono, le distanze non dividono e si spegne la tentazione di prevaricare e di ferire la dignità di qualche sorella o fratello. Apriamo le braccia, a Cristo e ai fratelli! Lì c’è Gesù.

Carissimi, carissime, rinnoviamo oggi con entusiasmo la nostra consacrazione! Chiediamoci quali motivazioni muovono il nostro cuore e il nostro agire, qual è la visione rinnovata che siamo chiamati a coltivare e, soprattutto, prendiamo fra le braccia Gesù. Anche se sperimentiamo fatiche e stanchezze — questo succede: anche delusioni, succede —, facciamo come Simeone e Anna, che attendono con pazienza la fedeltà del Signore e non si lasciano rubare la gioia dell’incontro. Andiamo verso la gioia dell’incontro: questo è molto bello! Rimettiamo Lui al centro e andiamo avanti con gioia. Così sia.


«Conta su di noi»


Penombra, silenzio, attesa. Decine di religiose, religiosi e rappresentanti di tutta la sfaccettata realtà che caratterizza l’esperienza della consacrazione per il Regno di Dio pregano  nella basilica di San Pietro. È la festa della luce, il giorno in cui la Chiesa fa memoria della Presentazione del Signore e celebra la XXVI Giornata mondiale della vita consacrata. Volti  che si illuminano con la flebile luce della fiammella delle candele. Sono tutti in attesa nel transetto dell’altare della Cattedra. Aspettano  che il Pontefice compia il rito della benedizione delle candele. Donne e uomini che sono impegnati quotidianamente nell’accoglienza degli ultimi della società, degli “scarti” del mondo: immigrati, anziani abbandonati, senzatetto. Consacrati che hanno per campo di missione tutta l’umanità, senza limiti o vincoli di spazi, frontiere, barriere culturali, linguistiche o religiose. Sono spesso in prima linea laddove si presentano  le emergenze. I carismi dei loro fondatori e delle loro fondatrici hanno accolto le sollecitazioni dello Spirito e nel corso dei secoli hanno cercato di rispondere alle sfide che attentano alla dignità e al bene dell’uomo. Ci sono, tra le tante,  suor Saveria, che vive la sua vocazione al servizio dei tossicodipendenti, e suor Maria Pia, che svolge attività a favore dei carcerati; suor Teresa, che sostiene le ragazze madri, e suor Giuseppina, impegnata nell’assistenza dei malati cronici e degli anziani soli; suor Anna, che aiuta padre Antonio e i suoi confratelli in una parrocchia di periferia, e suor Lucia e padre Giacomo che si dedicano a tempo pieno alla contemplazione e alla preghiera. Ma c’è anche chi è attivo nella rete che cerca di salvare le persone vittime della tratta.

Tutte realtà di cui si fa eco la preghiera dei fedeli. Le intenzioni sono, tra l’altro,  per la Chiesa, affinché porti l’annuncio del Vangelo dove regnano le tenebre del male; per chi sceglie di seguire Cristo nella vita consacrata, perché gli uomini vedano in Gesù la luce che dissipa l’oscurità; per i bambini e gli anziani, perché i battezzati siano portatori della luce di Cristo.

La celebrazione eucaristica di quest’anno ha fatto da cornice alla significazione pubblica che segue alla Ecclesiastica communio  concessa da Papa Francesco al patriarca di Cilicia degli Armeni, sua Beatitudine Raphaël Bedros XXI Minassian. Al momento della consacrazione, oltre al patriarca, sono saliti all’altare insieme con Francesco i cardinali Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, e João Braz de Aviz, prefetto della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, insieme con l’arcivescovo segretario del dicastero José Rodríguez Carballo.

Al termine della celebrazione, il cardinale Braz de Aviz ha salutato il Pontefice, ringraziandolo per aver dedicato alla vita consacrata l’intenzione del mese di febbraio affidata alla Rete mondiale di preghiera. «In un momento in cui sono ancora numerosi quelli che dopo un certo tempo abbandonano la vita consacrata — ha sottolineato — la celebrazione del 2 febbraio a Roma come  in tutto il mondo è un’opportunità di incontro segnato dalla fedeltà di Dio» che si manifesta nella «perseveranza gioiosa di tanti uomini e donne, consacrate e consacrati negli istituti religiosi, negli istituti monastici e contemplativi, istituti secolari, nuovi istituti, membri dell’Ordo virginum , eremiti, membri di vita apostolica di tutti i tempi». Il porporato ha poi assicurato che, «con tutta la Chiesa, anche noi consacrati abbiamo iniziato il cammino del Sinodo all’interno della nostra vita carismatica, ma anche inserendoci più concretamente nelle nostre Chiese particolari, le diocesi». Durante tutto quest’anno, ha proseguito, «abbiamo cercato di praticare la spiritualità e l’ecclesiologia di comunione per essere artefici di una fraternità universale e per sognare come un’unica famiglia».

Per continuare il cammino del Sinodo, ha detto ancora,  «ci piace invitare ognuno di noi a fare la propria parte, a partecipare. Nessuno si senta escluso da questo cammino, nessuno pensi “non mi riguarda”». Da qui l’invito a imparare di nuovo ad ascoltarsi reciprocamente, a tutti i livelli di Chiesa, «in mezzo a tutto il popolo di Dio per camminare tutti insieme nella gioia di appartenere a una sola famiglia». Con una disponibilità manifestata in conclusione a Papa Francesco: «Conta su di noi. Conta sulla vita consacrata».


Concessa dal Papa al patriarca di Cilicia degli Armeni

La significazione pubblica della «Ecclesiastica communio»


Papa Francesco alza la patena con il Corpo di Cristo e la offre a sua Beatitudine Raphaël Bedros XXI Minassian, patriarca di Cilicia degli Armeni. I due la tengono elevata a quattro mani e dopo qualche istante di preghiera silenziosa  la depongono. Quindi il Pontefice fa lo stesso gesto con il calice, nel quale  entrambi intingono poi la particola  e insieme si comunicano. È con questi simbolici gesti, dopo l’Ecce Agnus Dei , che si è espressa  la significazione pubblica dell’Ecclesiastica communio  — concessa da Francesco  al patriarca  con una lettera del 23 settembre scorso — durante la messa del 2 febbraio  in occasione della festa della Presentazione del Signore. Lo scambio delle sacre specie conferma la radice eucaristica della comunione tra il Papa e la Chiesa di Roma, che egli presiede nella carità, e la Chiesa patriarcale di Cilicia degli Armeni, tramite il suo Caput et Pater.  Accanto al Pontefice all’altare della Cattedra della basilica Vaticana erano i cardinali Sandri e Braz de Aviz, a esprimere la comune offerta della vita consacrata  latina e orientale che i due dicasteri accompagnano.