In difesa delle vittime del caporalato

Un Cenacolo per i braccianti della piana di Gioia Tauro

 Un Cenacolo per i braccianti della piana  di Gioia Tauro   QUO-025
01 febbraio 2022

Con la stagione della raccolta degli agrumi e la piana di Gioia Tauro si tinge di arancio, trasformandosi in un’immensa landa profumata di note aspre e dolci. Gli alberi sono carichi di frutto che attende solo di essere colto. Sotto le fronde il sudore di migliaia di persone, alcune delle quali lavorano senza orario. A pochi chilometri c’è il borgo calabrese di Maropatì, 1.400 anime ai piedi dell’Aspromonte. In cima alla collina che domina l’abitato c’è un viale di cipressi che conduce a un edificio. È il centro di aggregazione sociale Il Cenacolo. Un caseggiato con un grande salone colorato, con statue e immagini sacre, animato da tanti volontari che offrono aiuto ai poveri e ai bisognosi di tutto il mondo. Proprio così. Perché questo luogo non è solo a servizio delle comunità delle diocesi di Oppido Mamertina-Palmi e di Mileto-Nicotera-Tropea. È anche un centro di riferimento per migliaia di braccianti agricoli stranieri vittime di caporalato: ovvero reclutati da intermediari senza scrupoli e pagati 20-30 euro al giorno. Un traffico gestito per la maggior parte dalla criminalità organizzata.

C’era un tempo in cui alcune persone pensavano che anche Bartolo Mercuri, 65 anni, fosse uno ‘ndranghetista, a causa del suo passato in carcere. Una vecchia storia. Era il 1989 quando venne arrestato insieme a un amico trovato con un arma in una borsa. Allora Bartolo aveva 33 anni, due figli piccoli, una moglie disperata. «Prima bestemmiavo e non lasciavo andare a messa mia moglie», racconta, ma «in 25 mesi passati in cella ho incontrato Gesù». Successe quasi tutto per caso: «Ero triste, finché una sera mi sono arrabbiato con Dio. Gli ho detto tutti i miei peccati. Poi è entrata una luce nella stanza. Mi sono accovacciato sul letto e ho pianto, tremavo. Avevo capito che Dio non mi aveva abbandonato». Dopo questa esperienza chiese ai familiari una Bibbia. «Mentre i compagni di cella passeggiavano all’aperto, io leggevo e adesso Gesù è al primo posto nel mio cuore». Una volta uscito dal carcere, Bartolo si ripromise di aiutare i più bisognosi, ma il tempo passava. Finché Dio gli ricordò l’impegno preso. Così un giorno l’uomo individuò un casolare abbandonato, lo chiese in gestione e vi fondò Il Cenacolo, di cui è il presidente.

Da allora Bartolo si è dedicato anima e corpo ad aiutare i più poveri. Attualmente insieme ai volontari assicura un pasto a 600 famiglie del circondario. Alcune di loro vanno al centro di aggregazione per ritirare un pacco di viveri, mentre alle altre viene portato a domicilio. Tutto ciò è possibile grazie a molte parrocchie che donano cibo, coperte e vestiti. Senza dimenticare il fondamentale contributo del Banco alimentare e gli accordi con supermercati e negozi. Di recente una famiglia pugliese gli ha regalato un piccolo furgone bianco con cui oggi si effettuano consegne casa per casa. Tra le persone assistite ci sono anche migliaia di migranti nordafricani e dell’Est Europa che in questi giorni stanno lavorando negli agrumeti della Calabria. Molti di loro ormai lo chiamano “papà Africa”. Questa notorietà si accompagna da sempre alle intimidazioni. Tanto che negli anni passati gli sono stati bruciati diversi pullman comprati con la decima del suo stipendio, finché l’ultimo veicolo è stato acquistato grazie alla solidarietà delle persone. Così oggi Bartolo continua a percorre le strade polverose tra le case diroccate, le tendopoli, gli insediamenti informali, prendendo a bordo i braccianti, stanchi dal lavoro, per sfamarli e dissetarli nella mensa della sua associazione, dove trovavano abiti, scarpe e medicine. Prima dell’inizio della pandemia in un autobus da 50 posti trasportava anche 120 persone ogni giorno, mentre oggi ne salgono circa una trentina alla settimana, a causa del coronavirus.

«Per 15 anni non ho mai preso soldi», racconta, perché l’allora vescovo di Oppido Mamertina-Palmi, Luciano Bux (1936-2014), «mi diceva che il Cenacolo è un’opera di Dio e che se fossero entrati soldi il demonio lo avrebbe distrutto». Il presule è stato una figura fondamentale per la sua vita: «Mi stava vicino, mi accompagnava, mi rassicurava, mi diceva di non preoccuparmi perché questa era un’opera del Signore, che io stavo facendo un’opera buona e una seria diaconia. Infine mi ha preparato a ubbidire al suo successore». Questo è monsignor Francesco Milito, che negli ultimi anni sta dando un importante sostegno all’associazione. Altra figura importante per la vita del Cenacolo è un giovane sacerdote di origine africana che si occupa della ricerca dei migranti nelle campagne e della gestione della distribuzione di alimenti alle famiglie povere. Nell’ultimo anno il centro di solidarietà è cambiato molto. Dopo un’inchiesta televisiva sono arrivate offerte di aiuto da tutta Italia. Perciò è nato un comitato di garanti che vigila sulle donazioni economiche ricevute: un notaio, un giornalista, dei parroci, un imprenditore.

Bartolo ha un lunga esperienza con i braccianti vittime di caporalato. In passato ha anche gestito gratuitamente per sei anni la baraccopoli di Rosarno per conto del Comune. Il presidente del Cenacolo ricorda bene la rivolta dei braccianti nel 2009 quando, dopo un’aggressione armata, i migranti misero a ferro e fuoco la città. «Assieme al prefetto di allora per due giorni e due notti ho accompagnato le forze dell’ordine nelle campagne per trovare questi ragazzi invisibili e farli sgomberare, affinché non gli accadesse nulla di male, perché rischiavano il linciaggio da parte dei rosarnesi. Erano tutti africani e per fortuna hanno avuto fiducia in me. Volevano partire con il mio pullman, ma erano almeno 1.200 e non era possibile. Così lo Stato ha inviato venti autobus e li ha portati via». Oggi la baraccopoli non esiste più, ci sono solo cumuli di macerie. Adesso le forze di pubblica sicurezza sono più presenti, ma nuove catapecchie continuano a sorgere ovunque. Le ha viste con i suoi occhi anche il cardinale Konrad Krajewski, Elemosiniere di Sua Santità, che lo scorso anno ha visitato questa zona della Calabria, aprendo la sua mano caritatevole insieme a quella di Papa Francesco. «Io gli ho portato le arance, i mandarini e i kiwi calabresi. Loro mi hanno fatto tornare a casa con un camion pieno di alimenti e mi hanno donato del denaro che io e don Pino Demasi abbiamo trasformato in buoni spesa per tutta la piana di Gioia Tauro».

Nell’attività caritatevole di Bartolo la fede è il fondamento. «Ho iniziato mettendo una decima dell’incasso del mio negozio di mobili a disposizione dei poveri e oggi mi aiutano da tutta Italia». In questi anni il Signore gli ha dato la possibilità di aiutare migliaia di persone, salvandone anche alcune: un bambino romeno di 18 mesi sopravvissuto a un tumore al cervello grazie all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma; un giovane trasportato nella capitale al policlinico Agostino Gemelli dove i medici lo hanno operato con successo al cuore. Da tempo i poveri sono la famiglia allargata di Bartolo, il quale per molti migranti è l’unica famiglia. È “papà Africa”. Come dice lui stesso: «Mi cibo di Gesù e finché mi lascia vivere io sono per lui».

di Giordano Contu