Ripensare i padri

29 gennaio 2022

Nell’intervista pubblicata su «L’Osservatore Romano» del 13 gennaio, Papa Francesco riprende la figura di san Giuseppe, un uomo come tanti, «normale» — dice il Pontefice — che si è preso cura di Gesù e lo ha protetto nei momenti difficili della sua esistenza, facendogli da padre con amore e responsabilità. E san Giuseppe per come ha vissuto la paternità dovrebbe essere il modello di ogni padre, cristiano e non.

Paternità. Una parola forte e bella come il suo corrispettivo maternità. Ambedue rappresentano la realizzazione di una chiamata all’amore che Dio fa a ogni persona: «Siate fecondi e moltiplicatevi» (Gen 1, 28). La fecondità nasce dal dono che ognuno di noi fa all’altro: gli sposi si donano l’uno all’altro, a Dio e ai figli che verranno. La maternità è quasi scontata, nel senso che è più facile immaginare i sentimenti e le reazioni di una madre, i rapporti con i figli; ma i sentimenti più profondi di un padre? Cosa passa nella mente e nel cuore di un padre? Cosa sente l’uomo quando scopre la bellezza della paternità?

Da tempo seguo con piacere, in un famoso social, un profilo nel quale sono pubblicate bellissime immagini che descrivono l’uomo-padre, la storia quotidiana di un giovane padre, il quale racconta, in scatti molto semplici, ma espressivi, l’amore per la sua bambina diversamente abile. Ogni giorno un posto diverso, un messaggio nuovo, un sorriso differente. Sono scatti spontanei che parlano di una relazione vera, costruita sulla consapevolezza che i figli sono sempre un dono a prescindere dalle “diversità” o “difficoltà” fisiche che possano avere, e che amarli è il più bello, ma anche il più difficile dei compiti.

Quando si è figli non si comprende l’essere genitori, non si conoscono le ansie della madre e i silenzi inquieti e pieni di domande del padre; sì, i padri spesso tacciono anche quando vorrebbero dire tante cose, perché magari non sanno come dirle, oppure perché si accorgono che i figli sono cresciuti, e allora bisogna che facciano le loro esperienze; Francesco lo ha detto giorni fa: «un buon padre è tale quando sa togliersi al momento opportuno affinché il figlio possa emergere con la sua bellezza, con la sua unicità, con le sue scelte, con la sua vocazione». I padri soffrono e non dicono niente, ma le rughe sulla loro fronte ci parlano dei loro silenzi intessuti di amore.

Non è facile essere genitori e tra la madre e il padre non di rado è quest’ultimo ad accusare i colpi di un rapporto quasi sempre conflittuale, in quanto un padre rappresenta quelle scelte, quella maturità e responsabilità dalla quale vorremmo sempre scappare, perché ci pare troppo presto per essere adulti, per essere come il nostro papà.

E, comunque sia, è lui l’unico idolo quando si è bambini, più degli eroi dei cartoni animati e di quelle fiabe che ormai non si leggono già più, perché sa guardare i figli con tenerezza e li porta sulle spalle in un trionfo come nessuno mai più farà nella vita; e quelle mani enormi agli occhi di un bambino rappresentano l’àncora a cui aggrapparsi per non perdersi nel buio, la medicina per i cattivi, lo strumento che aggiusta le cose rotte e ne crea magicamente altre nuove.

Mi piace ricordare una canzone di Marco Masini nella quale racconta del suo rapporto con il padre: bellissimo da bambino, ma poi difficile e doloroso da adolescente e da adulto, fino alla consapevolezza che, sia come sia, di un padre non se ne può fare a meno… «Era dolce era dolcissimo, l’ho capito e te lo scrivo…».

Ripensare ai nostri padri, al posto che hanno avuto nella nostra vita, al bello e al buono che ci hanno lasciato, e anche al brutto di alcuni momenti, senza giudicarli, è senza ombra di dubbio una esperienza bella e per qualcuno anche un po’ dura, ma a un certo punto del nostro cammino va fatta, sapendo che nel solco della vita non tutti i semi sono buoni, e, in ogni caso, vengono da un vissuto che ci appartiene e riconoscerli e accettarli non può che renderci più umani.

di Caterina Ciriello